La storia si snoda lungo due linee temporali: c’è un presente in cui il protagonista, Arnold Stein, è un uomo che vive in compagnia del suo fedele cane in un rifugio isolato tra le montagne, e poi c’è un tempo passato – riconsegnatoci attraverso una serie di lunghi flashback – che ritrae Arnold nelle vesti di marito e di padre.

L’Arnold del passato è un pacifista convinto e, insieme alla moglie, deve affrontare il dilemma di un figlio, Chris, che decide di arruolarsi e di andare a combattere in Medio Oriente contro la volontà dei genitori. L’Arnold del presente è, invece, impegnato a portare avanti la sua personale guerra contro un misterioso sconosciuto che lo terrorizza con atti intimidatori di varia natura, senza mai palesarsi, arrivando perfino a ferire gravemente il suo cane.

L’evento che determina la trasformazione dell’uomo, da mite padre di famiglia a guerriero spietato, è la tragica morte di Chris, che manda completamente in frantumi l’esistenza di Arnold e lo spinge a isolarsi dal mondo per cercare di trovare un senso all’orrore della guerra. La resa dei conti finale con il suo nemico invisibile sarà per lui un vero e proprio banco di prova, nel corso del quale si troverà ad affrontare i limiti più estremi della propria umanità.

Tratto dal romanzo omonimo di Jochen Rausch, Krieg si dichiara, fin dal titolo, un film sulla guerra. Il regista Rick Ostermann costruisce un racconto abbastanza convincente, sostenuto da un buon livello di tensione, lavorando soprattutto sulla dimensione psicologica (la guerra vera, quella che si combatte sul fronte, non viene mai mostrata, ma restituita solo attraverso le parole che il figlio scrive al padre tramite mail).

Nel gioco dei rimandi tra il personale e l’universale, viene fuori un interessante tentativo di riflessione sulle questioni della territorialità e dell’estraneità, anche se a dominare sui contenuti è nettamente la resa formale (in primis la fotografia).