Ne La grande scimmia Alberto Abruzzese coglieva nella caduta di King Kong dall’Empire State Building la rappresentazione plastica del rapporto tra miti e tecnologia: quel precipitare dal grattacielo più alto del mondo, nella metropoli più potente, prefigurava il lutto irreparabile della civiltà moderna, sempre più tecnologica e sempre meno umana. La sovranità della bestia – della sua carne, delle sue emozioni – sottomessa alla bestialità della volontà di potenza. Poi quel precipitare lo abbiamo vissuto di nuovo, realmente, l’11 settembre. Nello stesso luogo simbolico, con il medesimo olocausto umano. Lì, in quel vuoto ricoperto solo dal loop delle immagini delle Torri colpite e affondate, l’Occidente non vedeva sorgere il nuovo (dis)ordine mondiale, come molti analisti politici hanno osservato, ma disciogliere il proprio mito di potenza, la propria fiducia nella techne  dentro il Ground Zero delle forze immateriali, culla iconica della nuova civiltà post-umana.

Nulla di strano dunque che dell’Empire, di New York, simboli ancora novecenteschi dell’autorappresentazione dell’Impero, non vi sia traccia nel nuovo rifacimento della “scimmia” di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack. Il cinema hollywoodiano, anche nei suoi esiti meno riusciti come nel caso di Kong: Skull Island, rivela sempre quali conflitti covi il cuore della civiltà che lo esprime. La sparizione del mondo vero, con le se logiche, i suoi miti, le sue rappresentazioni, presuppone un doppio digitale, non identico, dove possa finalmente continuare il sogno di liberazione dalla gravità della materia, dai bisogni del corpo, dalle pulsioni che in ogni momento rischiano di consegnarci alle barbarie.

No, Kong non arriverà a New York. Resterà invece libero nella sua isola, perché innocuo, bestia ormai addomesticata, virtualizzata, contenuta nelle invisibili gabbie della Rete. Garante di quel paradiso immateriale riprodotto “sulle fotografie” di Oahu, Isole Hawaii. E la bella non piangerà la sua bestia. Si guarderanno, si sfioreranno appena. Senza rischio. Solo uno stolto rappresentante del Vecchio Mondo, un sergente fino ad allora impegnato in Vietnam (altro grande snodo dell’immaginario novecentesco ridotto ad attrazione digitale, scenografia della memoria), lo può ancora ritenere una minaccia. Nel suo rozzo e pasticciato ensamble mitopoietico, nel suo ridicolo e vetusto impulso ecologista, nel suo sperpero da arresto del cast (da Samuel L. Jackson a Brie Larson, passando da Tom Hiddleston), questo Kong: Skull Island riprende quasi inconsciamente da dove ci aveva lasciato Peter Jackson dieci anni fa, dal deserto del reale cannibalizzato dal cinema, in luogo del quale sorge lo spazio dove ogni luogo, ogni tempo (qui dei falsissimi anni ’70), ogni immagine è possibile.

Una sorta di Mondo perduto (che ci sembra anche il riferimento più immediato per il film di Vogt-Roberts), di Luna Park dell’immaginario in cui fare e rifare la stessa esperienza e dove alla civiltà ludica e post-umana non è richiesta alcuna originalità, se non quella di riconoscersi in quanto replica.