"Il nostro passato è tragico, il nostro presente è triste, ma per fortuna non abbiamo futuro". Questo il sigillo di ironica saggezza, per chiudere l'odissea terrena del popolo curdo da parte di Hiner Saleem, 41 anni, da Acna (città del Kurdistan iracheno). Scarna messa in scena, forte afflato simbolico a cui seguono i classici mugugni cannensi che mettono Saleem addirittura tra i furbi. Ma a noi piace salvare ed elogiare questo film che nonostante la produzione francese salvaguarda un'idea pura e semplice di cinema. Certo, Kusturica presidente della giuria potrebbe o prenderla benissimo ed inneggiare al capolavoro, oppure gridare al plagio, tanto che in Kilometre zero, appare un letto quasi volante proprio come ne La vita è un miracolo. Ma chi ha la memoria un po' più lunga (suggeriamo Vodka Lemon) può semplicemente ricordare che per Saleem, quel letto che attraversa gli spazi geografici ed ambientali che non gli sono fisicamente consentiti è un po' come un simbolo di libertà di movimento per un popolo a cui il regista appartiene fieramente e che si ritrova ancora nel 2005 senza confini nazionali, patria e bandiera. Per chi poi ha una memoria ancor più lunga, nel 1988, mentre Saddam Hussein si accapigliava nel deserto per far fuori gli iraniani di Khomeini, lo stesso rais di Bagdad ordinava stermini a tappeto a nord del paese per eliminare una volta per tutte la piaga dei curdi. Prima vessati, umiliati e offesi, poi arruolati loro malgrado nell'esercito iracheno, la popolazione di origine curda, venne gasata, giustiziata e infine spinta alla fame nelle montagne del profondo Nord. Saleem torna a quei giorni, seguendo la vicenda di Ako e della bellissima moglie Salma. Lui, costretto a diventare soldato di Saddam e portato fino al Sud del paese per combattere l'Iran, lei con bimbo in braccio in attesa leggermente spasmodica. Ma è l'ironia a regnare in Kilometre zero: una sorta di disincanto, di franca desolazione dell'esistente. Saleem è bravo nel mostrare l'ottusità delle autorità irachene, l'atavica sottomissione del diverso, fino a questo espressivo e grottesco turning point narrativo dove il ritorno al nord con la salma di un caduto di origine curda, in compagnia di un autista iracheno, diventa un battibecco sociopolitico che spiega più di mille pamphlet sull'argomento. Un cinema ben poco divistico, attraversato continuamente dal vero protagonista del film: l'effige del rais caduto in disgrazia sottoforma di poster, di graffito, di murales e di statua di bronzo portata a passeggio tra i deserti e le brulle colline dell'Iraq prima di finire nascosto in uno scantinato polveroso e buio.