Il concorso della Berlinale è stato inondato di satira travolgente con l’iraniano Khook, maiale, dell’iraniano Mani Haghighi. Una resa dei conti non solo, e non tanto, con il regime, che proibisce al protagonista regista di fare il suo lavoro, come spesso succede nella realtà, quanto con le proprie paure, della morte, del fallimento, delle donne, del potere.

Il protagonista (Hassan Majooni), anche lui un regista, è un bambino mai cresciuto del tutto. Un serial killer uccide i suoi colleghi decapitandoli e lasciando scritto in fronte la parola  Khook, maiale. Ma perché non viene ucciso anche lui? Come è possibile che non sia sulla lista dell’assassino? Lui, il migliore dei registi iraniani! Una commedia noir, un thriller burlesco, una fotografia dello stato psichico di una nazione, un conto aperto con le proprie nevrosi e con quelle di una società digitale e medievale, pronta al futuro e inchiodata nel passato.

 

"La figura del martire ha sempre goduto di uno status molto particolare in Iran", dice Haghighi. "Chi parla dei propri problemi lo fa dipingendosi un ruolo da martire, vittima di un sistema, degli altri, mai di sé stesso. È uno stato psicologico da infanzia adulta. Il mio paese avrebbe bisogno di una lunga psicoterapia collettiva. Chi come me lotta a viso scoperto contro la repressione e  l’arbitrio delle istituzioni, non ha posto in società, ma ai suoi margini. Puoi essere considerato un folle, un clown, un giocatore d’azzardo. Ma non una persona con una dignità da difendere".

Una distante ironia è la cifra che Haghighi sa ben impiegare nel suo linguaggio cinematografico e che gli permette di attaccare con l’arma apparentemente più innocua: il sorriso. Una farsa filosofica come abbiamo già visto nei suoi Men at Work, la commedia sociale Modest Reception o la surreale parabola A Dragon Arrives, anche questo presentato al concorso, nel 2016.