Tobias Lindholm è un enfant prodige del cinema danese. Poco più che trentenne ha già ideato numerose serie televisive di successo nonché scritto insieme al regista di culto Thomas Vinterberg Submarino e The Hunt. Ora, dopo aver co-diretto con Michael Noer R, firma da solo il primo film scegliendo un argomento di grande attualità, il sequestro delle navi da parte dei pirati nelle acque dell'Oceano indiano.
Tema caldo che il regista elabora partendo dal resoconto dei fatti per concentrarsi poi sull'analisi delle emozioni più profonde dei protagonisti. I fatti sono quelli dolorosamente riverberati dai media: assalto dei pirati, occupazione della nave, prigionia dell'equipaggio, lunghe trattative per ottenere il riscatto, ma appunto Lindholm non è interessato alla mera cronaca e la sua attenzione si concentra invece sulle psicologie dei sequestrati e dei sequestratori da un lato e quelle dei capi della compagnia di trasporti dall'altra.
C'è insomma di mezzo il potere, il denaro che scorre a fiumi lungo le acque dei mercati finanziari come le navi solcano l'Oceano indiano nonostante i rischi. Una verità difficile da raccontare in modo tradizionale, così l'autore segue un doppio registro preferendo un linguaggio convenzionale per descrivere quanto accade in Danimarca e uno di tipo documentaristico per restituire le condizioni di prostrazione e di pericolo in cui i sequestrati sono costretti a vivere. Una dicotomia che segna anche una precisa divisione, meglio opposizione, tra il pugno di capitalisti che decidono i destini di molti e i molti impossibilitati a definire la propria esistenza. E però, così come in Vinterbeg, niente è solo bianco o nero. Nel corso del sequestro che dura mesi i due protagonisti principali - il Ceo della multinazionale e il cuoco di bordo - si trasformano e assumono nuovi abiti mentali sfumature la cui analisi è decisamente più interessante degli esiti del sequestro in sé. Cambiamenti più o meno sottili che il regista, fedele alle teorie care a Lars Von Trier, ha stimolato negli attori tenendoli nello stesso stato emotivo dei personaggi da intrepretare. Tradotto: mesi di prove, libertà di improvvisare, riprese in una nave all'ancora nell'Oceano Indiano con annessi pericoli di abbordaggio, sfide fisiche e mentali ai limiti dell'accettabile.
Il risultato è una sensazione di verità che aleggia su tutto il film, pur essendo ovviamente frutto della finzione. Si potrà discutere sul metodo, ma Kapringen conferma un innegabile talento.