Nonostante una famiglia a dir poco disfunzionale e una vita non propriamente idilliaca, anche a Joy Mangano viene concessa l'occasione di realizzarsi nella vita. Per farlo però deve combattere contro il più temibile degli avversari: il capitalismo americano. Dopo gli anni '70 di American Hustle, David O. Russell salta al decennio successivo e mette in scena una favola “stonata” in cui il tono del racconto molto spesso si muove in antitesi con la storia. Questo comporta che in più di un'occasione vedendo il film ci si chieda quale fosse l'intento del regista, e soprattutto cosa volesse mettere in scena: un melodramma familiare? Un ritratto corrosivo dell'American Dream? Una storiella edificante? Quando la storia principale del film parte veramente sono già passati almeno trenta minuti, sprecati a rappresentare spaccati di vita di famiglia irritanti e non particolarmente importanti per la trama principale. Un gruppo di attori del calibro di Robert De Niro, Diane Ladd, Virginia Madsen, Isabella Rossellini ed Edgar Ramirez si barcamenano al meglio delle loro enormi potenzialità nel caratterizzare dei personaggi troppo sopra le righe, tasselli di un nucleo con cui non si riesce quasi mai a entrare in empatia. L'unico a funzionare davvero, insieme a una Jennifer Lawrence comunque efficace in un ruolo ingrato, è Bradley Cooper, il quale con a disposizione poche scene riesce a lasciare il segno.

Troppo confuso nell'amministrare i toni del racconto, Joy finisce per essere un calderone di riferimenti e situazioni che sfocia nell'incoerenza invece che nella varietà. David O. Russell ha evidentemente perso per strada il filo del film, incapace di imboccare una direzione specifica dentro il cinema di genere (in un paio di momenti scivola addirittura nel gangster-movie!). Se nei precedenti lavori il muoversi con audacia tra toni differenti aveva rappresentato la sua qualità principale, con Joy si è spinto forse oltre le sue capacità.