Se dagli applausi si misurano le possibilità di vittoria in un concorso, allora il film dei fratelli Ronit e Shlomi Elkabetz si candida a vincere la 19ª edizione della Settimana della Critica. Kammerspiel israeliano, scritto, diretto e interpreto da quella Ronit Elkabetz che ha deliziato le platee con Alila (2003) di Amos Gitai o con quel piccolo gioiello che è stato Matrimonio tardivo (2003) di Dover Kosashvili, E prenderai moglie (titolo italiano che sembra una strana predica fuori tempo) è una vibrante analisi della faticosa emancipazione umana e sentimentale di una donna. 1979, Haifa, nemmeno un'introduzione con rulli e annessi titoli per far comprendere subito che la vita di Viviane non è proprio ciò che lei avrebbe voluto: dopo l'ennesima crisi di nervi della donna, i suoi fratelli la costringono a ricredersi sulla bontà del marito e sull'importanza del suo matrimonio. Ovviamente per Viviane pur nella cordiale, anche se tesa atmosfera familiare, non c'è scelta: bacetto casto sulla guancia di Eliyauh e la vita continua, come prima. Impossibile uscire dal tunnel della ripetitività, improbabile sperare nella comprensione di chi sta accanto, Viviane ricomincia i gesti e le azioni quotidiane: i figli che si lagnano, che vogliono soldi, che urlano reclamando autonomia nelle loro camere da letto. Ci sono dei riti istituzionalizzati e delle tradizioni familiari da mantenere, la gabbia si stringe e la nuova esplosione di rabbia di Viviane è dietro l'angolo. Ed è proprio grazie alla capacità recitativa di Ronit Elkabetz, dove si fondono pianti, lamenti e litanie in uno straziante francese arabeggiante, che il film prende quota, lasciando il segno, destabilizzando con la sua forza drammaturgica e infastidendo attraverso quella cortina di oppressione familiare fatta di silenzio e distacco che uccide. Come un ululato isterico E prenderai moglie si fa bellissimo canto per una voce sola che si scaglia con forza contro una sacra quanto finta e deleteria ritualità sociale.