Forse mai come in questa edizione della mostra veneziana l'incontro e lo scontro di culture e di genti è stato filo conduttore e tema portante. Ad appena un anno dalla partecipazione alle Giornate degli Autori con il documentario Sangue verde, Andrea Segre torna nei Venice Days con il suo esordio nel cinema a soggetto.
Dopo aver ottenuto sostegno per lo sviluppo del progetto in diversi dei più autorevoli laboratori internazionali di supporto ai giovani autori – Cannes e Roma in particolare -, Segre, per la sua storia d'amore interetnica, è riuscito a radunare un cast internazionale di assoluto rilievo: il protagonista maschile è Rade Serbedzija, attore croato che ha costruito il suo successo su una carriera divisa a metà tra cinema d'autore europeo e blockbuster statunitensi, mentre per il ruolo della barista cinese della quale l'uomo s'innamora, Segre ha scelto Zhao Tao, interprete affermata in patria e nota anche in Occidente grazie soprattutto al lavoro del compagno, il regista Jia Whang-Ke.
Con prudenza e coerenza per il suo primo cimento nel cinema di finzione, il giovane regista padovano ha costruito un piccolo racconto che versa l'andamento favolistica nello stile asciutto e disteso del documentario. Nonostante l'inesperienza nell'orchestrazione di un cast coinvolto in una messa in scena pura, Segre dimostra sufficiente lucidità e tanto nella ricerca del giusto tono quanto nel disegno e nel taglio delle vicende riesce a ottenere un film credibile senza mai perderne vistosamente il controllo.
Se lo scambio tra i due protagonisti – stranieri – funziona bene concedendo poco spazio a cadute di stile e passaggi a vuoto, qualche problema viene a galla invece nel rapporto dei due con il resto del cast italiano. Battiston, Citran e Paolini suonano un'altra musica: e non è solo l'accento a essere diverso, ma la densità del gesto e della parola, la giustezza dei toni, l'intensità degli sguardi a fondare un sensibile e sgradevole scalino tra gli uni e gli altri. Segre dimostra di lavorare più comodamente nelle sequenze a due, nei momenti a più ridotto tenore narrativo, nelle “nature morte” sul paesaggio lagunare veneto. Ma il gusto e il senso cinematografico non sono omogeneamente distribuiti e anzi non mancano passaggi avvelenati da una faciloneria tipica della peggiore produzione nostrana. Io sono Li è l'esordio italiano più interessante e solido di questa edizione della Mostra; il suo stile controllato ripiana in parte il dislivello accumulato su altri fronti tra i film italiani e tutti gli altri.