Maggio 1994: Nelson Mandela (Morgan Freeman, perfetto) è stato appena eletto presidente. Fine dell'apartheid, ma il Sudafrica rimane lacerato: convincere i connazionali  ad appoggiare la squadra di rugby, gli Springboks, nella marcia ai Mondiali può essere la soluzione? Nonostante per i neri sia ancora lo sport razzista dei bianchi e degli Afrikaners, Mandela ci scommette. Guidati dal capitano François Pienaar (Matt Damon), il 24 giugno 1995 gli Springboks affrontano in finale gli All Blacks, davanti ai 62mila spettatori dell'Ellis Park Stadium di Johannesburg.
E' Invictus di Clint Eastwood,  che prende il titolo dal poemetto di William Henley: “I am master of my fate; I am the captain of my soul”, Mandela ne fece un mantra durante i 27 anni di prigionia. Fu l'inizio della vittoria, non di un singolo ma di un popolo: conciliazione e unificazione, che Mandela gettò nella mischia degli Springboks per mandare in meta il nuovo Sudafrica. Quanti di noi conoscevano questa storia? Pochi, pochissimi, e qui sta il merito di Eastwood, voluto dietro la macchina da presa da Freeman (terza collaborazione tra i due), quel Freeman che Mandela aveva battezzato suo alter ego cinematografico già nel '94.
Regia pulita, struttura (iper)classica, qualche difficoltà per i 170cm di Damon a rendere l'uno e novanta di Pienaar, Invictus non vuole essere il biopic di Mandela, ma la tranche de vie della nascita di una nazione: problema, anche l'agiografia dell'uomo al comando finisce tra i pali. Mandela/Freeman è sempre buono, declama a tutte le ore e mette in fuoricampo i tanti problemi socio-politici che dovette affrontare, eppure dopo quasi tre decenni di prigione i suoi aguzzini li avrà mandati a quel paese o no? Eastwood sceglie la seconda opzione, e il santino fa capolino.