Ancora guerra. Da una prospettiva diversa però, quella degli Indigènes dell'algerino Rachid Bouchareb. Siamo cresciuti nella convinzione che i soldati buoni, quelli dello sbarco in Normandia per intenderci, fossero alti, biondi e muscolosi, invece erano anche scuri e musulmani, arruolati nei territori francesi di oltremare, Algeria soprattutto, durante la seconda guerra mondiale. Volontari per denaro o idealismo, si misero in marcia in 130mila con l'armata francese per cacciare i tedeschi. La maggior parte non era mai stata in Francia, per moltissimi è stato un viaggio di sola andata. Dall'Algeria i "nativi" (così li chiamavano i francesi) si spostano in l'Italia, all'inno di "siamo uomini  dell'Africa venuti a morire per la Francia". Tra loro ci sono l'infermo Said (gli manca un braccio), Messaoud, l'unico con buona mira e promosso sul campo tiratore scelto, il caporale Abdelkhader, che al contrario degli altri sa leggere e scrivere. Nel primo scontro a fuoco vengono massacrati dai tedeschi (o erano anche italiani?). Al reporter che gli chiede il perché di tutti quei corpi il colonnello risponde: "Abbiamo vinto per la prima volta dal '40, scriva questo". La tappa successiva è la Provenza, è l'agosto del '44. C'è chi si innamora (nel loro paese le donne francesi sono intoccabili), chi lotta per la decantata eguaglianza e fratellanza, incarnata nel privilegio di un pasto a base di pomodoro. Arrivano fino all'Alsazia, ormai uno sparuto gruppetto, se ne andrà solo uno. Lo stesso che decenni dopo tornerà a contare le tombe. Retorico e convenzionale  (il contrasto con i film di Bruno Dumont e Ken Loach è davvero forte), questo Schindler's List algerino, che ha commosso la platea della stampa internazionale, deve la sua forza nel legame indissolubile tra passato e presente: la Storia non perdona.