Il film si apre su paesaggi della verde Irlanda degni, nella fotografia di Barry Ackroyd, di un film di John Ford. L'intensità estetica di Il vento che accarezza l'erba appare garantita fin dalle prime inquadrature e lo spettatore si abbandona fiducioso alla contemplazione della natura. Ma la serenità del suo sguardo è subito spezzata: ha inizio la storia (la Storia), che è storia di stupri sull'Isola e sui suoi (sulle sue) abitanti. Come fece undici anni orsono con Terra e libertà, Ken Loach allontana lo sguardo dall'attualità sociale dell'Inghilterra e torna indietro nel tempo, alle lotte per l'indipendenza irlandese degli anni '20. Il che non gli impedisce affatto di affrontare tematiche di portata atemporale: le dinamiche del potere, i compromessi e le responsabilità personali, le ambivalenze morali; inclusa - anche questa volta - la cattiva coscienza del Paese in cui è nato. Le vicende di Damien e Teddy, fratelli che impugnano le armi contro l'oppressione dei soldati britannici, gli spietati Black and Tan, e dei loro crudeli sergenti (rappresentati in tutta la ferocia di un occupante che rimanda, in un sol colpo, al nazismo e ai conflitti in atto nel mondo), sintetizzano le lacerazioni interne alla comunità dei combattenti irlandesi, tra coloro che propongono (impongono) il compromesso e chi, invece, respinge accordi considerati un frutto umiliante della corruzione. Damien (un ottimo Cillian Murphy) rinuncia a una carriera di medico e segue il fratello Teddy (Pàdraic Delaney, altrettanto bravo) nella lotta per la libertà; ma quando, dopo i primi successi dei guerriglieri, i due schieramenti negoziano un accordo per mettere fine allo spargimento di sangue, tra coloro che hanno combattuto fianco a fianco si scatena una guerra civile che mette famiglia contro famiglia, fratello contro fratello. Non è difficile ravvisare, in Il vento che accarezza l'erba, alcune simbologie eterne che rimandano al primo fratricidio, quello di Caino, o alle figure del martirio, facendo di Damien un agnello sacrificale. Tutto ciò, però, senza che Loach si lasci in alcun modo andare al manicheismo o alle tentazioni edificanti (ciò che avveniva, invece, in alcuni momenti di Terra e libertà). Con lucidità etica, che si fa drammaturgica, il regista tratteggia gli itinerari contraddittori dei due fratelli per far emergere le contraddizioni e i lati oscuri di personaggi costretti a prendere, gradualmente, coscienza di come il potere sporchi le mani e le responsabilità politiche non vadano disgiunte da ambiguità e compromissioni. Coerentemente, Loach non rinuncia mai alla cifra del realismo, rendendo credibili le sequenze di guerriglia quanto le scene più intimistiche (in famiglia e tra i membri della resistenza) ed evitando, sempre, le trappole che l'accademismo tende così facilmente ai film in costume (vedi il manierato Michael Collins di Neil Jordan, assurdo Leone d'oro a Venezia '96). La Palma d'Oro a Cannes va a onore del presidente della giuria Wong Kar-wai. Il presunto dandy cinese, infatti, ha sorpreso molti (ma il verdetto, inatteso dai più, è stato generalmente accolto bene) premiando un regista intransigente e indifferente alle voghe cinematografiche, per un film fieramente fuori-moda che è anche uno tra i migliori della sua bella filmografia. Quando, la sera della premiazione a Cannes, Loach ha ribadito di credere nei film che fanno luce sul passato, contribuendo nello stesso tempo a interrogare il presente, sapeva molto bene di cosa parlava.