"Tsotsi" significa "gangster" nel linguaggio dei ghetti sudafricani. Ma è anche il nome del protagonista del film - il giovane e bravissimo Presley Chweneyagae - capo di una banda di disadattati che sopravvive, tra furti ed omicidi, nella periferia di Johannesburg. La sua vita precipita quando spara ad una donna per rubarle l'auto, senza accorgersi che sul sedile posteriore c'è il figlio di pochi mesi. Incapace di abbandonarlo nella vettura, lo porta con sé e cerca - a volte con esiti catastrofici - di prendersene cura. Inizia così, involontariamente, il suo cammino di redenzione. Ma non c'è riscatto senza dolore nella periferia: la ricerca di un senso morale procede di pari passo con l'escalation della violenza. E ci scappa un altro morto. Il senso di colpa prende allora il sopravvento, e Tsotsi trova rifugio solo nella totale resa alla giustizia, senza però abbandonare la speranza di un futuro ancora possibile. E commuove il suo pianto liberatorio finale, simbolo di un'infanzia negata che prende il sopravvento e chiede una rivincita. Costruito come un thriller - il ritmo è serrato e scandito da musiche e sonorità africane, il montaggio veloce - ma capace di un approfondimento che lo allontana anni luce dal genere, Il suo nome è Tsotsi possiede un'energia simile a quella di City of God e The Constant Gardener. Dove diventano parte integrante del film anche gli squallidi quartieri della periferia, le case in lamiera, i depositi abusivi di macchine rubate, i cilindri di cemento dove i ragazzini abbandonati cercano riparo. Tratto dal romanzo di Athol Fugare, fotografato benissimo e diretto con grande capacità narrativa dal poco più che esordiente Gavin Hood - molti e intensi i primi piani che permettono di guardare i protagonisti direttamente negli occhi -  Il suo nome è Tsotsi ha coronato con l'Oscar per il miglior film straniero la sua marcia trionfale per i festival di tutto il mondo.