Alan (Giuseppe Zeno) è un eroinomane alle prese con una vita costantemente in bilico. Circondato da amici sieropositivi, da donne con cui condivide le stesse pulsioni masochiste e da una famiglia che non sa come aiutarlo decide d'intraprendere un percorso di autoanalisi.
Un viaggio interiore che lo porta a riemergere dal limbo in cui era intrappolato e che gli restituisce la voglia di lottare: anche solo per quel sogno nel cassetto - diventare calciatore - che non lo ha mai abbandonato.
Dal superamento delle delusioni infantili all'abbattimento delle barriere che lo separano dal padre (Gigi Savoia), dalla presa di coscienza dei propri limiti all'accettazione del rapporto conflittuale con la madre (Cloris Brosca): il tutto attraverso la (ri)scoperta del sesso e dei legami affettivi.
In chiave umana e umanista, la pellicola di Castaldo crea una frattura rispetto ai modelli precedenti del genere “tossico”. Modelli a cui il regista non sembra volersi affatto ispirare. Cercando, invece, un film senza soluzione di continuità con il passato, in cui l'eroina - personificazione e allegoria di una signora tanto irresistibile quanto pericolosa - non è altro che lo spunto per parlare d'amore e di dipendenza nelle loro accezioni più vaste. Amore declinato in ogni sua forma. Dipendenza da qualsiasi cosa generi assuefazione, anche solo emotiva.
Ma è tutto un po' sopra le righe: le inquadrature lunghe e statiche, i tempi narrativi dilatati, la direzione d'attori teatrale e impostata. Il sesso aggiunto punta in alto, forse troppo. Parte bene dalla tematica sociale, ma si perde in un immobilismo solenne e autoreferenziale. E quel che rimane è l'amaro in bocca per un'ottima occasione sprecata.
Al netto delle imperfezioni, però, sopravvive una coerenza di fondo in grado di restituire la vera forza del film: quel senso d'impotenza e di fragilità dei personaggi, messi al muro dalla loro stessa natura. Merito dei bravissimi interpreti e della colonna sonora di un Nicola Piovani che non sbaglia mai.