Sfortunato quel regista che ha bisogno di far ridere. Un “cabarettista prestato al cinema”, per esempio, che alla decima regia in 20 anni non riesca più a far ridere. In realtà, non ci riesce più da qualche lustro, ma sorvoliamo.

Qui, Il professor Cenerentolo, ci riesce solo per interposto Massimo Ceccherini, che pure è rimasto quello del Ciclone, quello del “Signorina una pregunta... possibile io e lei... una ramatina?”, s’intende, con qualche risata (nostra) di meno.

Povero Leonardo Pieraccioni, non per conto in banca, ma per quantità e qualità di riso elargito in sala: è un gentiluomo ma – crediamo lo sappia lui per primo – col cinema a cui ci aveva abituato a suon d’incassi non c’entra più nulla. Nulla. Leonardo lo sa e prova a metterci una pezza: “Basta personaggi appesi al pero, serve più realismo”, ha buttato lì senza convenzione alcuna in conferenza stampa.

Forse, un giorno che pare ancora lontano lontano arriverà un Pieraccioni 2.0, ma per ora l’ennesimo appuntamento natalizio col suo cinema si configura esclusivamente quale accanimento terapeutico: Finalmente la felicità, Un fantastico via vai, Il professor Cenerentolo e così via, si fa male Leonardo e, soprattutto, ci facciamo male noi.

Già, non riuscire più a far ridere – né, ancor prima, a ridere in prima persona singolare – dev’essere terribile.

Comunque, la sinossi del film Cenerentolo: detenuto all’isola di Ventotene, dopo un fallimentare assalto in banca, e ormai prossimo al fine pena, l’Umberto di Pieraccioni si divide tra dentro - filmini carcerari e dialettica con il direttore interpretato da Flavio Insinna - e fuori: la biblioteca condivisa con il nano Davide Marotta e la storia d’amore con la sciroccata Laura Chiatti.

Umberto dovrebbe/vorrebbe pure rinsaldare il rapporto con la figlia adolescente: ci riuscirà? Di sicuro, è una missione più facile di quella che attende Leonardo con gli spettatori. Salvate il soldato Pieraccioni.