È facile – e anche un po’ pigro – leggere Il Pataffio (in concorso al 75° Locarno Film Festival) pensando a L’armata Brancaleone, ma, al di là del contesto storico, dell’idioma ibrido e dell’umanità cialtrona, il terzo film di Francesco Lagi non ha molto a che fare con il classico di Mario Monicelli, se non altro perché manca il ripensamento figurativo e concettuale di un mondo attraverso la creatività iconografica e la fantasia linguistica.

Certo, ci sono due grandi temi della commedia all’italiana: da una parte, la corale sgangherata che cerca di compiere una grande impresa e ovviamente fallisce; dall’altra, l’ottusità infantile e nociva del potere contro un popolo incapace di farsi comunità e vocato al disastro. Ma Il Pataffio è prima di tutto un omaggio a Luigi Malerba, autore del romanzo all’origine del film, che Lagi ha diretto e scritto in solitaria.

Non solo perché l’eccentrico Malerba è stato scrittore d’avanguardia, anticipatore della temperie postmoderna per la capacità di rompere gli schemi della narrazione canonica, uno sperimentatore che ha svuotato il linguaggio per svelarne i trucchi e riplasmarlo, un archeologo che ha scavato nel patrimonio culturale dimenticato per riscoprire il verbo antico di un popolo umiliato e offeso.

Ma anche perché Malerba, che il cinema l’ha frequentato saltuariamente, ha girato un solo film nella sua vita, assieme ad Antonio Marchi. Si chiama Donne e soldati e Monicelli lo considerava il precursore di Brancaleone: un lavoro bizzarro e sfuggente, prodotto da Marco Ferreri e che i due registi scrissero assieme ad Attilio Bertolucci.

Il Pataffio di Lagi sembra guardare a quella occasionale e dimenticata esperienza (e, se proprio dobbiamo individuare una referenza monicelliana, ci vediamo piuttosto il più affine benché irrisolto Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno). C’è uno sguardo antiretorico su questa avventura picaresca, senza epica né etica, con un gruppo di povericristi mossi dagli istinti più bassi, la fame prima d’ogni altra.

Sotto un titolo che recupera un’arcaica alterazione lessicale di epitaffio, dove il termine sta per iscrizione sepolcrale ma anche più generale, è la storia di un manipolo di soldati e cortigiani capitanati dal Marconte Berlocchio e dalla sua novella moglie, la gioconda Bernarda, sposata solo per interesse. Arrivati in un feudo lontano, si trovano in un castello decrepito abitato da villani che non hanno alcuna intenzione di farsi governare.

credits: Vivo Film, Colorado Film Production, Umedia
credits: Vivo Film, Colorado Film Production, Umedia
credits: Vivo Film, Colorado Film Production, Umedia
credits: Vivo Film, Colorado Film Production, Umedia

È un’operazione singolare per il cinema italiano contemporaneo, così disabituato a setacciare il passato remoto, esito di una strana nonché inedita sinergia produttiva (Vivo Film con l’onnipresente Rai Cinema in associazione con Colorado Film e Umedia) e dotata di buoni valori produttivi (la fotografia naturale dello spagnolo Diego Romero, già collaboratore di Roberto Minervini, i costumi lerci di Mariano Tufano, le scenografie rudimentali di Daniele Frabetti, le musiche di Stefano Bollani che recuperano testi di Malerba stesso).

E però qualcosa non torna, nel Pataffio di Lagi, forse più a suo agio negli interni capaci di suggestioni ambigue come aveva dimostrato nel precedente e interessante Quasi Natale, tant’è che il meglio lo dà quando si chiude nel castello fatiscente. Pensiamo al gran momento lirico – niente spoiler – con Viviana Cangiano, la più notevole dell’eterogeneo cast di prime linee per malinconia buffa e leggerezza boccaccesca.

Si sputa molto e ovunque, le flatulenze puntellano il racconto, la fame è una maledizione, si muore molto e in modi grotteschi. Il ritmo qua e là latita e la commedia più che correggere i costumi ridendo si preoccupa un po’ troppo di parafrasare l’eternità del carattere italiano all’altezza di un contemporaneo che ben si presta a una lettura parallela alla parabola storicomica. Ha tutti i pregi e i difetti del film d’attori: tutti bravi, non c’è che dire, Lino Musella e Giorgio Tirabassi in primis, ma tutti così tentati dall’istrionismo finendo ogni tanto sopra le righe.