Il calvario globale di un padre partito alla ricerca delle due figlie sopravvissute al genocidio armeno.

Dalla Turchia al Libano, da Cuba agli States: Fatih Akin costruisce attorno a un protagonista muto come Charlot, inerme e inespressivo (un Tahar Rahim sottotono) un’implacabile geografia della sventura.

Il tema del “Male in assoluto” (per ammissione del regista di origini turche) ha come svolgimento lo svuotamento sistematico della cornice storica del film e una messa in scena stilizzata che, passando attraverso il ricorso sistematico a metafore, figure emblematiche e scene madri, finisce per sottrarre all'operazione il necessario calore umano.

Vittime e carnefici non hanno rilievo, la drammaturgia si avvoltola su stessa e anche la struttura transfrontaliera del suo cinema cede stavolta a un esotismo posticcio.

Come tutti i progetti ambiziosi, Il padre confida troppo nel disegno sottovalutando il processo, il tratto e la matita. Anche i momenti più riusciti - come la scoperta del cinematografo da parte dei sopravvissuti armeni (si proietta Il monello) - appaiono estemporanei, e la buona colonna sonora – mix di rock e canti tradizionali - non basta a scuotere un film sprovvisto di autentiche vibrazioni.