Voci israeliane e palestinesi si mischiano, si sovrappongono al rumore dei bulldozer che continuano, incessanti, a lavorare il cemento. Un muro (lunghezza prevista 640 chilometri, alto più di cinque metri e con - ad entrambi i lati - quattro metri di filo spinato, lame e sensori) che, per volontà dei suoi ideatori, diverrà sempre più invalicabile, è stato eretto per dividerle definitivamente. "La separazione deve diventare filosofia con una frontiera vera", disse una decina d'anni fa Rabin, e quello che gli occhi un tempo vedevano ora è possibile solo immaginarlo, ricordarlo. Il muro, in costruzione dal 2002, ha un costo di due milioni di dollari a chilometro e, per ora, ne è stato completato solo un terzo. Passato alla Quinzaine des réalisateurs dell'ultimo Festival di Cannes e vincitore dello scorso Festival di Pesaro, Il muro di Simone Bitton - documentarista nata in Marocco, cittadina israeliana e francese che si considera da sempre "araba-ebrea" - diviene la testimonianza filmica, necessaria e imprescindibile, di un sopruso: la prospettiva di un confine fra due stati, di fatto, si è trasformata in una barriera, un odioso e incolore ostacolo, che rende impossibile il passaggio non autorizzato dei palestinesi in territorio israeliano. La regista si spinge fino a quel muro: costeggiandolo, seguendone il percorso (che si snoda nei territori palestinesi impedendo a migliaia e migliaia di abitanti le più ovvie mansioni quotidiane: una su tutte, raggiungere i posti di lavoro), ha voluto incontrare quelle voci, il più delle volte tenendole fuori campo, per raccogliere - impedendo che il silenzio le accomunasse nella morte della speranza - il delicato grido di chi, quasi a dover nascondere chissà quale crimine, ancora cammina senza tregua in cerca di uno spiraglio da attraversare: il mercato, la scuola, gli amici e il cielo sono dall'altra parte. E nessun muro può farglielo dimenticare.