L'ultima fatica dei fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne è un film che, pur nella sua compattezza e fascino, devia leggermente dai canoni estetici dei precedenti e molto probabilmente propone una mutazione formale, quindi nuovi percorsi linguistici e significanti da intraprendere, per il futuro dei due cineasti. Se fino a ieri lo stile dei Dardenne si era pietrificato e aveva letteralmente fatto storia (e tendenza), con Il matrimonio di Lorna cambiano i presupposti della questione. Per seguire all'interno degli anfratti di Liegi una tranche de vie dell'immigrata albanese Lorna (l'intensa Arta Dobroshi), i Dardenne - premiati a Cannes per la miglior sceneggiatura - si affidano improvvisamente alla parola, al dialogo, all'esplicazione dei concetti attraverso le battute recitate. Viene così a mancare una buona dose di veicolazione di senso, esasperato finché si vuole, ma tratto distintivo e caratterizzante del loro cinema, attraverso la lente della macchina da presa.
Lorna, complice di un taxista italiano mezzo criminale che combina matrimoni a fine di lucro, è sposata surrettiziamente con il tossico Claudy (l'icona feticcio dei Dardenne, Jeremie Renier). Grazie a lui ha ottenuto la cittadinanza belga ed ora si finge promessa sposa di un ricco russo che paga bene e le fa guadagnare denari per aprire un bar, sogno in comune che ha con il suo ragazzo albanese Sokol. Il dramma di Lorna, sballottata tra affetti e relazioni, tra macroesperienza politica (lo schiavismo e il ricatto dell'immigrata) e microesperienza individuale (i differenti impulsi provati verso un mondo di uomini violenti, incapaci, sfruttatori) diventa un soggetto femminile neorealistico a 360 gradi.
Per raccontarlo non serve più il pedinamento ossessivo del classico Dardenne touch, ma quadri d'insieme, scappatoie narrative sfiorate per arricchire la tragedia del singolo preso in esame. Per esempio l'improvviso innamoramento di Lorna per Claudy, che dipende ormai in tutto e per tutto da lei, diventa una linea schizoide e deviante che si allarga in campi medi e lunghi, in sorrisi della protagonista, in serene varianti di alleggerimento dell'intensità del racconto insolite per i Dardenne. Poi, certo, gli elementi di materialismo ancorati alla dannazione degli emarginati della contemporaneità rimangono forti, presenti, quasi tormentosi. L'insistenza sul denaro, toccato, nascosto, passato di mano in mano, appoggiato, dimenticato, è qualcosa d'insistente e voluto. Per Lorna è mezzo e fine dell'esistenza, elemento mancante e continuamente ricercato, messo sotto lucchetto per paura che venga rubato. Una rappresentazione ossessiva di un dato reale sempre più mancante nella vita dei protagonisti che porta sempre ad una reiterata e tragica non soluzione. Anche se poi i Dardenne negli ultimi 10' fanno rivivere la loro eroina vagamente bressoniana: la pedinano da dietro, la lasciano affidarsi all'istinto, alla fuga in avanti verso un'indipendenza spirituale più sentita e compiuta. Probabile inizi un altro film, probabile sia il colpo d'ala per dirci che in fondo i Dardenne sono sempre loro e per l'ennesima volta hanno girato un piccolo capolavoro.