All’origine de Il legame (opera prima di Domenico de Feudis, già assistente alla regia di Paolo Sorrentino in La grande bellezza e Loro e Valeria Golino in Miele, nonché autore di due corti) c’è quel misterioso universo osservato, studiato, analizzato da Ernesto de Martino in saggi come Sud e magia, pietra miliare della ricerca etnografica in cui il grande antropologo esplorava rituali e credenze del meridione più ancestrale.

Un mondo sospeso che il cinema italiano ha preservato in rare occasioni: pensiamo al corto documentario Stendalì di Cecilia Mangini, che partiva proprio da de Martino per raccontare l’antichissimo rito delle lamentazioni funebri, ma anche – perché no – a tutto quel filone rurale che da Il demonio di Brunello Rondi trova ha la sua punta di diamante nel capolavoro di Lucio Fulci, Non si sevizia un paperino.

 

Anche de Feudis per Il legame sceglie di leggere il sud popolare e arcaico attraverso la lente del genere, senza ammiccare allo stile di quei film ma cercando una via personale, tra il barocco e il terragno, non immune a certe malie internazionali. D’altronde distribuisce Netflix, che pare interessata ad approfondire l’esportabile binomio genere/folklore anche da noi (la serie Curon).

Attorno al concetto di fascinazione – ma anche a quelli di malocchio, fattura, possessione – si sviluppa la storia di Francesco, che arriva nella natia Puglia (cupissima) per presentare la compagna Emma e la di lei figlia alla mamma, che vive in una villa circondata da ulivi centenari. La permanenza si preannuncia subito allarmante: la bambina viene punta nel sonno da una tarantola e comincia a dare segni di possessione, Emma comincia a sospettare di tutti, compresa la mamma di Francesco, che si dice sia una guaritrice capace di operare riti magici sulle persone.

Il legame - Mia Maestro e Giulia Patrignani - Foto di Matteo Leonetti

Il legame gioca le sue carte sullo spaesamento delle due estranee in una realtà dalla quale sono lontanissime e sull’ambiguità del protagonista maschile, a cui risulta probabilmente impossibile allontanarsi da un background fatto di reticenze e sortilegi. Non c’è un vero adattamento al presente: l’idea sta proprio nel raccontare un mondo sospeso in un tempo mitico svincolato dalle contingenze del contemporaneo. Con un gusto dell’azzardo che fa onore a un esordiente, de Feudis costruisce bene la tensione rielaborando un sistema di riferimenti che ha radici profonde.

Una nota a Riccardo Scamarcio: al decimo film in poco meno di due anni, si dimostra non solo interprete indefesso e versatile (la commedia, il dramma, il giallo, il noir, oggi l’horror, domani il biopic su Caravaggio) ma anche uno dei più disponibili a seguire strade diverse e ripensare a ogni ruolo il proprio statuto post-divistico.