Non deve essere stato un anno eccezionale in Germania se il meglio che i tedeschi hanno trovato per farsi rappresentare agli Oscar è una scialba ricostruzione d’epoca sul primo processo contro gli aguzzini di Auschwitz.

L’altra nota di colore è che il candidato in questione, Il labirinto del silenzio, è diretto da un italiano emigrato in Germania, Giulio Ricciarelli, al debutto dietro la mdp. Quella di Ricciarelli, anche sceneggiatore con Elisabeth Bartel, è una messa in scena elegante, dai colori saturi e vivaci come quelli che generalmente associamo agli anni ’50 (quelli dei mélo in technicolor, con una predominanza di toni rossi e verdi), che danno al film un look d’antan vagamente artefatto.

Sotto il profilo visivo ricorda un altro film recente che si è occupato dei postumi del nazismo e della questione del risarcimento, Woman in Gold, anche se dal punto di vista narrativo sarebbe più un sequel di Vincitori e vinti di Stanley Kramer, sul processo di Norimberga. Quello contro i responsabili di Auschwitz arrivò parecchi anni dopo, nel 1960, grazie all’impegno di un giovane procuratore molto ambizioso e parecchio schifato dalla volontà di rimozione di un’intera nazione. Film giusto ma insopportabilmente didascalico.