"Fare soldi facendo i soldi è più rapido che fare soldi vendendo arte" è l'ipse dixit di Salomon Sorowitsch: pittore, baro, traffichino, donnaiolo, falsario. Pedigree da adorabile canaglia, non da criminale comune. Deprecabile altrove, un simile status può diventare mirabile nel Paese della scelleratezza al potere. Leggi Terzo Reich. Difatti non pochi "gli ariani" amici, pur essendo Salomon un ebreo. Persino Herzog, un sovrintendente delle SS che lo arresta per contraffazione di denaro, sembra indulgente. Fatto trasferire dal campo di concentramento di Mauthausen a quello "meno duro" di Sachsenhausen, il nazista accorderà all'ebreo un trattamento di favore (letti veri, cibo vero, persino un tavolo da ping pong) se questi riuscirà - al comando di una squadra scelta di deportati - a falsificare quantità industriali di sterline e dollari. Per la Germania di Hitler in gioco c'è la guerra, per Sorowitsch e i suoi compagni la vita. Tratto dal libro autobiografico di Adolf Burger (The Devil's workshop, inedito in Italia), un ebreo slovacco che fece realmente parte di quel reparto speciale a Sachsenhausen, Il falsario di Ruzowitzsky - candidato all'oscar come miglior film straniero - non è tanto un'opera "sui" lager, ma nei" lager: il campo di concentramento slitta in secondo piano, e da testo diventa contesto, laboratorio per osservare il comportamento di uomini costretti ad agire in una situazione estrema,  in bilico tra la vita e la morte. Il racconto acquista così una valenza astratta che fuga in parte il sospetto di relativismo etico - ebrei internati disposti all'occorrenza a farsi carnefici - e aderisce stricto sensu allo stato d'indeterminatezza morale in cui brancolano i personaggi. Una scelta confermata dall'uso del teleobiettivo, con il quale il regista vuole "spiare" a distanza azioni e reazioni senza mai assumere una posizione. Il che non gli impedisce comunque di costruire un film spettacolare, tentato talvolta dalle soluzioni più facili - come nell'emblematico contrasto tra la musica lirica e le condizioni di vita nel campo, ovvero il massimo del sublime e dell'orrore umanamente possibile -, rovinato in coda da un finale consolatorio. Gran prova attoriale, messa in scena kantoriana e bella fotografia espressionista di Benedict Neuenfels. A Berlino, dove il film fu presentato in anteprima lo scorso anno, non mancarono le polemiche.