Da Londra il colonnello Katherine Powell (Mirren) dirige a distanza un’importante operazione militare che sradicherà una cellula terroristica a Nairobi, avvalendosi di forze militari sul posto e di un drone pilotato dal Nevada dall’ufficiale Steve Watts (Paul), mentre nella war room londinese il generale Frank Benson (Rickman) segue l’evolversi del blitz con alcuni rappresentanti civili del governo. Quando tutto è pronto per la cattura di alcuni tra i più ricercati esponenti del terrorismo internazionale, la situazione cambia, precipitando: la missione va ora verso un immediato attacco missilistico, volto ad uccidere. Ma nella stima dei danni collaterali è prevista la morte di una bambina, ovviamente innocente. Lasciarsi sfuggire dei terroristi pronti a colpire o risparmiare una vittima sicura? Esiste un diritto ad uccidere?

Eye in the Sky, titolo originale dagli echi orwelliani, riassume il senso del film: l’occhio nel cielo è il drone che con i suoi sensori consente la guerra contemporanea. Un occhio freddo, strumentale, che osserva e uccide senza che mandante ed esecutore materiale corrano mai il minimo rischio fisico. Eppure dietro quel tasto premuto che sgancia missili c’è un gran lavoro, decisioni complesse da prendere rapidamente e, soprattutto, persone.

Per umanizzare la visione di una guerra spesso paragonata a un videogame, il film mette in scena l’umanità più quotidiana, anche spiacevole, dei protagonisti: attacchi di dissenteria, insonnia, il debito universitario da saldare, la moglie dispotica che rivela l’incapacità di compiere scelte futili di chi ha in mano le sorti del mondo. Una scelta così originale, quasi spregiudicata, è impiantata da Gavin Hood in una struttura thriller formalmente classica, in cui per esempio i “cattivi” sono figurine bidimensionali sulle cui motivazioni non viene mai gettata luce, nonostante il film si impegni a mostrare i punti di vista di tutti i personaggi verso i quali chiede empatia allo spettatore. Ultima apparizione per il compianto Alan Rickman.