Il sottoproletariato urbano di Napoli, mondo di circensi, giostrai, neomelodici e malandrini e di altri mestieri di sopravvivenza sommersi è ormai il nuovo cuore politico e poetico del cinema neo-neorealista italiano almeno quanto quello romano lo fu al tempo del primo neorealismo. Un cinema orgogliosamente off, dialettale, cantato, colorato e tristemente freak, marginale come i suoi personaggi, convitato necessario dei festival. Un identikit che corrisponde alla perfezione a quello de Il cratere, film di finzione d’esordio di due bravi documentaristi come Luca Bellino e Silvia Luzi, in concorso alla SIC del 2017.

Più Indivisibili che Gomorra, ma con un approccio al reale meno astratto e fantasmagorico, più materico (un cinema, in effetti, che ricorda quello di Tizza Covi e Rainer Frimmel), Il cratere mette le sue istruzioni per l’uso in esergo, vedi l’incipit in cui la giovane protagonista Sharon, forse in vista di un’interrogazione, ripassa il verismo, ricordandone il lascito e la lezione.

Ed è tutta in questa indicazione di stile e di dover essere, in questa scommessa artistica e morale, a favore dei vinti e al cospetto di vicende senza letizia né riscatto, che si gioca il destino di un cinema oltre ogni compromesso, giusto a prescindere, fieramente periferico.  E fondamentalmente esiziale prima di tutto per sé stesso.

Perché se si plaude al coraggio e alla coerenza (est)etica, se si ammira il talento di convertire ogni dato del reale in elemento poetico, ogni persona in personaggio, all’interno di una struttura più asfissiante che pedinante, tutta primissimi piani e segmenti vacillanti, nell’implicita domanda di senso su cosa e come guardare, quale immagine può ancora avere il nitore dell’epifania, quale voce per quanto cristallina può riprodurre il suono vero del mondo, è altrettanto sostenibile che tutto questo venga realizzato al prezzo di una più profonda connessione con il pubblico, negandone la partecipazione dunque l’importanza, in una fraintesa accezione di cinema popolare.

Ed è un peccato, perché l’occasione di tramutare la storia di Sharon, la tredicenne canterina sulla quale il padre ambulante ha riposto tutte le speranze di redenzione da una sorte infame, in qualcosa di più di un documento di psicologia sociale, lavorando con maggiore convinzione sulla scrittura e concedendo qualcosa all’immaginazione, lo scarto narrativo/figurativo (canzoni, meravigliose, a parte), c’era.

Il piacere dell’intreccio non ha mai precluso il desiderio di realtà. Come i maestri del neorealismo sapevano bene. Era anzi la chiave d’accesso a un livello di verità non tangibile e più profondo. Quello che Il cratere, con tutta la prossimità possibile (all’oggetto), non riesce mai a raggiungere.