"Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente". Una delle prime frasi di Khaled Hosseini ne Il cacciatore di aquiloni. Straziante, essenziale e cruda come solo la vita sa essere. Best seller a scoppio ritardato e capolavoro, racconta l'amore, l'amicizia, persino la politica e la storia, attraverso la parabola di un Afghanistan violentato da sempre. Russi, americani, talebani, imperialismi malati che hanno tentato di schiacciare un popolo fiero, aggettivo inteso nell'accezione dell'orgoglio come in quello della ferocia. Ma se Hosseini, americano di origini afgane, caccia aquiloni, il regista Marc Forster va per farfalle. Del libro capisce poco, rendendolo un melodramma da feuilleton, proprio lui, il raffinato regista di un gioco di vita e finzione come Stranger than Fiction. E' tanto felice nella scelta degli attori, dei visi (Khalid Abdalla, Atossa Leoni, i vecchi amici Shaun Toub e Homayoun Ershadi) quanto sbrigativo nella narrazione e nella regia, senza guizzi. Lì dove Hosseini smorzava il dolore con poesia, approfondimento, descrizione, Forster prende furbe e superficiali scorciatoie, nella parte centrale come nel finale banalizzato. Un'occasione persa per immergersi in un romanzo che è autobiografia personale, generazionale, culturale ma anche affresco emotivo e storico. Noi occidentali presuntuosi e/o paternalisti, continuiamo a non capire gli altri. Li giudichiamo e basta.