Una coppia lesbo regolarmente sposata, due figli nati per inseminazione artificiale e un donatore di seme che coltiva la terra in modo biologico. L'intento de I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko - fuori concorso - è chiarissimo: travestire da film alternativo un mega-spottone del progressismo da salotto. Cui non manca peraltro il giardinaggio eco-compatibile, un rigido salutismo (fumano in pochi e si beve con senso di colpa) e l'adesione al "verde" su strada (la famigliola viaggia su un automobile a bassa emissione, la Toyota Prius).

Il peccato originale del film è la voglia di normalizzare ogni cosa, come se la diversità tanto sbandierata finisse per intimorire i suoi stessi promotori, al punto da dover essere neutralizzata nel ricorso a schemi narrativi convenzionali. Non sapremo mai cosa è veramente alternativo in una famiglia alternativa, qual è la sua differenza, perché la Cholodenko cambia la cornice ma non il quadro, riproponendo un modello familiare tradizionale. La pochezza - la furbizia? - dell'operazione sarebbe lapallisiana se al posto di una delle due "Moms" immaginassimo un padre: non svanirebbe l'effetto-paradosso di superficie (che tanto ha fatto ridere i giornalisti presenti ieri in sala, a dimostrazione di come i pregiudizi alberghino anche tra le menti più colte e aperte del paese)? Non si esaurirebbe il film nei soliti bric a brac psicologici, attriti familiari e crisi identitarie? Peraltro risolte con piglio minimista, da sit-com pomeridiana.

Anche il cast non giova alla causa: Julianne Moore e Annette Bening sono troppo etero-connotate per sembrare lesbiche e credibili; i due "kids" - Mia Wasikowska e Josh Hutcherson - fanno presenza, musi duri e poco altro (s'intuisce che la sceneggiatura non è stata scritta per loro), mentre Mark Ruffalo è semplicemente un personaggio irrisolto e un attore continuamente a disagio. Soffre come gli altri di una preoccupante afasia di linguaggio, come se la famiglia dove si può dire tutto, e dirlo apertamente, finisse per non avere più nulla da dire. E' in fondo la stessa sindrome di cui è affetto il film.