“I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi: siamo noi i fantasmi” diceva Eduardo in Questi fantasmi! e da qui, idealmente, parte il secondo film di Alessandro Capitani, presentato alle Notti Veneziane nell’ambito delle Giornate degli Autori.

Scritto dal regista con Francesca Scialanca e Giuditta Avossa, I nostri fantasmi si muove tra l’adesione realista e la suggestione favolistica, mettendo al centro della storia Valerio, un giovane padre vedovo e disoccupato, e Carlo, suo figlio di sei anni, che vivono nel sottotetto della casa da cui sono stati sfrattati.

Fantasmi della società, per l’appunto, pezzi fragili dunque invisibili di una città che non si accorge della loro assenza. E fantasmi per autorappresentazione, dacché ogni volta che arrivano nuovi inquilini nell’ex appartamento padre e figlio rivendicano la loro presenza in quanto spettri, con l’obiettivo di terrorizzarli e indurli all’abbandono dell’immobile.

Un gioco di posizionamento fondato sul bisogno di proteggersi attraverso la potenza dell’immaginazione. Per il piccolo Carlo è un modo per credere che la sua esistenza di sacrifici e privazioni si svolga dentro una favola, mentre si convince di mantenere un rapporto extraterrestre con la madre che non c’è.

Per Valerio, invece, non costituisce solo l’opportunità per lenire il dolore del figlio – e il proprio – ma anche una possibilità di galleggiare nell’attesa di un futuro. Cosa succede quando nell’appartamento arriva Myriam con la figlioletta, in fuga da un marito crudele e violento e che dei fantasmi non ha paura? E se per Valerio potrebbe essere l’occasione di una vita nuova, Carlo accusa il padre di “intelligenza con il nemico invasore”. Dopotutto, ogni storia d'amore è una storia di fantasmi, no?

Come il precedente In viaggio con Adele, I nostri fantasmi ragiona sulle strategie che personaggi decentrati rispetto alle norme sociali adottano per sopravvivere in contesti scomodi e ostili. Se nell’opera prima Capitani usava lo schema della commedia on the road per svelare una relazione in divenire, qui c’è la scelta di chiudersi in un perimetro claustrofobico dove i fantasmi sono soprattutto le tracce visibili di passati ingombranti, asfissianti, opprimenti.

Più interessante che davvero risolto, è però un film d’atmosfera che lavora con discreta efficacia sulla dialettica anche allegorica dentro/fuori (decisivo l’apporto di Daniele Ciprì alla fotografia), che sa trovare una cifra più compiuta soprattutto quando tiene fede allo sguardo del bambino e alla sua commovente fiducia nei confronti del “gioco”. Buona la resa del cast, ma la colonna sonora di Michele Braga è il valore aggiunto.