Sofferente a ogni forma d' intolleranza, come sempre nel suo cinema, Giuliano Montaldo torna a girare dopo diciotto anni di astinenza e affronta nuovi demoni, che scorazzano per una storia ancora oggi non liberata dalla loro presenza. Eppure, questa lunga assenza non ha creato frattura nei confronti di opere chiamate "trilogia del potere", e che lui preferisce denominare "trilogia dell'intolleranza": sociale con Sacco e Vanzetti (1971), religiosa e culturale con Giordano Bruno (1974), morale e politica con Gli occhiali d'oro (1987). Ora un'algida San Pietroburgo viene ricreata nei palazzi piemontesi (fotografati da Catinari), perché Montaldo si lascia possedere da un racconto di Andrei Konchalovsky scritto da Paolo Serbandini, incentrato sulla figura di Dostoevskij. Pensare a un film sul grande scrittore russo potrebbe spaventare, ma in questo caso rivivere passioni, paure e malattie di Fjodor, nella sua epoca tormentata e inquieta come la nostra, ha una sua ragione. Nel film sono le contrapposizioni ad intessere una ragnatela di sospetti e ribellioni. Narra le intimità spirituali e le frizioni sociali Giuliano, con alcuni picchi emotivi.   Per la recensione completa leggi il numero di maggio della Rivista del Cinematografo