Stanley Sugarman (Adam Sandler) è un uomo di mezza età, ha alle spalle un glorioso passato sui campi da basket e lavora come talent scout per i Philadelphia 76ers. Gode della stima (e dell’affetto) del vegliardo presidente (il monumentale Robert Duvall, a cui bastano tre pose per imporsi nella memoria), che finalmente intende gratificarlo con il posto da coach.

Ma il vecchio muore e il figlio, nuovo capo del team (Ben Foster, sempre in palla), decide di bloccare lo scatto di carriera, congelandolo nel precedente ruolo. Cosa fare di fronte a una così grande delusione se non mandare all’aria il rapporto con l’ingrata dirigenza, scommettere sul talento di uno sfortunato ragazzo spagnolo (Juan Hernangómez, cestista degli Utah Jazz), diventare il suo allenatore e procuratore per lanciarlo nell’NBA?

È una storia classica, anzi super-classica, quella di Hustle, e più che un aggiornamento di parabole di riscatto alla Colpo vincente o Tornare a vincere, sembra una specie di My Fair Lady con i canestri al posto delle canzoni, un A Star Is Born ma senza il coefficiente tragico. La sua forza non sta tanto nel coinvolgimento in sede produttiva di LeBron James e di altri giocatori nel cast (Anthony Edwards, Trae Young, Jordan Clarkson per citarne alcuni), figure che pur garantiscono autenticità alla macchina narrativa, quanto nella performance del protagonista (anche co-produttore).

Alle prese con un personaggio archetipico del cinema americano, la star va di sottrazione, rinuncia a eccessi decorativi, porta in dote una notevole presenza scenica che gioca con ciò che evoca e con ciò che sottintende. Non scopriamo niente di nuovo sottolineando la polifonia della sua recitazione, soprattutto nell’ambito di un legame con Netflix – di cui Hustle è il nono frutto – che dimostra l’intelligenza amministrativa del divo. Sandler, infatti, onora il contratto con la piattaforma alternando contenuti estremamente commerciali e in linea con il suo percorso farsesco (i mediocri The Ridiculous 6, Matrimonio a Long Island, Murder Mystery, Hubie Halloween) a divagazioni d’autore che lo fanno emergere come interprete di spessore.

HUSTLE. (L-R) Juancho Hernangomez as Bo Cruz and Adam Sandler as Stanley Sugerman in Hustle. Cr. Cassy Athena/Netflix © 2022.
HUSTLE. (L-R) Juancho Hernangomez as Bo Cruz and Adam Sandler as Stanley Sugerman in Hustle. Cr. Cassy Athena/Netflix © 2022.
HUSTLE. (L-R) Juancho Hernangomez as Bo Cruz and Adam Sandler as Stanley Sugerman in Hustle. Cr. Cassy Athena/Netflix © 2022.
HUSTLE. (L-R) Juancho Hernangomez as Bo Cruz and Adam Sandler as Stanley Sugerman in Hustle. Cr. Cassy Athena/Netflix © 2022.

Più che a The Meyerowitz Stories e Diamanti grezzi, capolavoro liminare che vale una carriera, Hustle si ricollega al primo tentativo in questa direzione, Sandy Wexler su un manager che coglie l’occasione di puntare su una cantante. C’è certamente la volontà di preservare la dimensione rassicurante del corpo comico anche in questo contesto meno spumeggiante, e forse c’è anche il bisogno di mantenersi a distanza dalla tensione disturbante del pessimista Diamanti grezzi.

Certo è che pochi interpreti come Sandler sanno accordarsi a questi film malinconici e ottimisti, trasmettendo inquietudine e disincanto senza ricorrere al corredo di dipendenze o tragedie (Stanley vive un sereno ménage familiare con la moglie Queen Latifah) ma affidandosi agli sguardi liquidi, ai sorrisi velati di tristezza, ai movimenti impacciati. E riuscendo a dare credibilità a una riflessione che è anche manifesto e monito: “Gli uomini di cinquant’anni non hanno sogni: hanno incubi ed eczema”. Pur con qualche lunghezza di troppo nella seconda parte (alla regia Jeremiah Zagar, esordiente nella fiction), Hustle mette in scena il bisogno del sogno. Intrattiene, incoraggia: tutto sommato non è poco.