Hugo Cabret è un capolavoro. Il film più personale di Martin Scorsese da anni e anni a questa parte e, non solo, il suo più privato, più immaginifico, più radicale: dopo decenni di onoratissimo servizio, e più di qualche lavoretto su commissione, il regista italo-americano può finalmente consegnare il suo film-testamento, scucendo di tasca altrui un budget monstre di 150-170 milioni di dollari e prendendo un besteller - di Brian Selznick - per adattare i proprio sogni, le proprie ossessioni e la propria Weltanschauung al di qua e al di là della macchina da presa.
C'è di tutto, e di più nel film, in pole-position con 11 nomination agli 84esimi Academy Awards: cinema, meta-cinema, cinema-sogno, sogno-cinema, moviola demiurgica, da "Padreterno”, politica degli autori, interazione uomo-macchina, il grande orologiaio, la settima arte orfana di passato, il presente presago di ieri, oggi e domani colto dallo spioncino della cabina di proiezione, la conservazione e l'archivio. E un unico scatto: dietro la macchina fotografica “antidiluviana”, c'è lui, Martin Scorsese, a immortalare il suo avo, il suo “analogo” di quasi cent'anni prima, Georges Méliès.
Il resto è proiezione, retroproiezione, long take e piano sequenza, carrellate ottiche, CGI e un 3D urgente, necessario, formalmente ineccepibile, e furbo, furbissimo: Scorsese ha fatto allentare i cordoni della borsa “promettendo” un family-movie stereoscopico per grandi e, soprattutto, piccini. Non che i secondi non possano trarre giovamento e sollazzo, ma Hugo Cabret non è per loro: è per Martin, e al più per i cinefili pensanti. Per Martin, perché altro non è che un viaggio nel tempo e nel tempo della settima arte secondo le traiettorie di un regista colto, di un cineasta cinefago e cinesenziente: Scorsese, appunto, che sulla scorta del romanzo di Selznick riesce nell'inaudito, riportare in vita in carne e ossa delegate - Ben Kingsley, superbo - il demiurgo del cinema-invenzione, del cinema non rappresentativo, ma (ri)creativo, ovvero Georges Méliès, e soprattutto rifissarne sulla tela-schermo le immagini, i colori, i bon mots e i proto-slapstick, i suoi film, a partire da Voyage dans la lune.
Tutto questo, ribadiamo, in un “film per famiglie”: inedito, se non incredibile. Hugo Cabret sprizza cinema e amore di cinema da ogni inquadratura, con le più suggestive, le più icastiche e programmatiche a far da guida: gli sguardi di Hugo Cabret (Asa Butterfield, una rockstar inglese in miniatura, tra Jarvis Cocker e Brett Anderson, ma con gli occhioni blu), orfano e piccolo orologiaio in incognito della stazione di Parigi, filtrano attraverso un diaframma di vetro - il vetro dell'orologio, ovvero quello della macchina da presa - e hanno alle spalle il quadrante con le lancette, l'immagine-tempo della settima arte.
Sì, Deleuze, e l'immagine-movimento è Hugo Cabret stesso, un caleidoscopico, fantasmagorico serbatoio di figure retoriche, metonimia, sineddoche, mise en abyme, e chi più ne ha più ne ritrovi in questo post-verniano Viaggio al centro della terra-cinema.
Un solo esempio, che richiama in causa i Lumière dell'arrivo del treno alla stazione Ciotat: vediamo questo corto d'antan, poi la rielaborazione onirica - meglio, l'incubo - di Hugo, che scopriamo non è sogno, ma addirittura sogno nel sogno, e poi - non esiste forse la moviola, ovvero la cine-possibilità di andare avanti e indietro nella realtà e nell'immaginazione? - la definitiva iterazione dell'evento nel “reale”, con Hugo che quasi finisce schiacciato dalla locomotiva.
Scatole cinesi, messe in abisso, con le rotelle che funzionano alla perfezione, ingranaggi di un meccanismo cinematografico così oliato da essere - almeno qui, e negli altri vertici dell'Arte - “vero”: Scorsese è utopico, mesmerizzante e magico come già suo papà Georges (Méliès). E, sempre in ping-pong bio-poetico, triste, tristissimo: Hugo Cabret non è solo lo zenit, ma l'apogeo della decadenza della settima arte. Scorsese dice, ovvero fa dire a Méliès, che di cinema si muore o, comunque, si soffre, si trova l'oblio sociale e l'astenia privata, la depressione professionale: eppure, si può uscirne a testa alta, perché il negativo è il positivo della settima arte. Ovvero, quel che rimane, faticosamente e non meno incredibilmente: è questa l'impressione di Hugo Cabret, che trova Harold Lloyd abbarbicato sull'orologio come qui e ora il suo piccolo orfano taumaturgo.
E poi, tra una sinfonia meccanica e una sinfonia di una grande città, le geometrie variabili di Borges, l'architettura di Escher e la Metropolis di Fritz Lang, il sogno in “automatico”, l'automa, il Golem, l'interazione uomo-macchina (complementare all'interazione macchina-uomo della protesi, alla gamba del reduce della Grande Guerra Sacha Baron Cohen), che è lascito memoriale privato (il padre di Hugo Cabret, Jude Law) e pubblico (il padre di Scorsese, Méliés), ovvero, in definitiva, il cinema stesso, arte-industriale di una creatura mitologica, il regista, metà uomo e metà macchina da presa. Come l'automa disegna, così il film, che traccia linee, collega puntini nel corso del tempo.
Immagine-tempo e immagine-movimento, per far coincidere qui e ora le origini e il futuro nel montaggio delle attrazioni: Hugo è un'attrazione. Spericolata, folle, meravigliosa, e così personale da fondersi con l'universale, grazie a uno “scambio di persona” a tre - Scorsese, Méliès, Hugo Cabret - che come già a Rimbaud fa dire a Martin “Io è un altro”. E, grazie a Dio, in quell'altro possiamo essere anche noi.