Il cinema come terapia psicanalitica. Sarà stato anche questo, forse, a muovere il problematico Shia LaBeouf, attore che in più di un’occasione ha avuto i suoi guai con la giustizia, a scrivere questa sorta di “biopic di formazione” ispirato alla sua infanzia e al rapporto disfunzionale con il padre, ex clown di rodeo.

È Honey Boy diretto da Alma Har’el, già premiato al Sundance Film Festival e ora in selezione ufficiale alla XIV Festa del Cinema di Roma.

Scritto da LaBeouf mentre si trovava in rehab in seguito ad una condanna, il film è incentrato su Otis Lort (Lucas Hedges), giovane star del cinema che (proprio durante il soggiorno forzato in un centro di recupero in seguito ad un arresto per guida in stato di ebbrezza) cerca di ritornare alle radici dei suoi problemi.

Honey Boy
Honey Boy
Honey Boy
Honey Boy

Torna così a galla il periodo in cui viveva in un motel fatiscente con il padre (interpretato proprio da Shia LaBeouf), con lui dodicenne (Noah Jupe) già attore che di fatto manteneva il genitore grazie ai proventi del suo lavoro.

Non inventa nulla di nuovo il film di Alma Har’el, ma è innegabile quanto il punto di partenza finisca per caratterizzarne, in positivo, la portata: rivivere seppur per finzione la propria infanzia e farlo vestendo i panni di quel padre (ex eroinomane, ex alcolista) che, di fatto, ti ha condizionato l’esistenza, non deve essere stato semplice.

Honey Boy
Honey Boy
Honey Boy
Shia LaBeouf in Honey Boy

Ma nonostante questo Shia LaBeouf è riuscito nella sua interpretazione migliore di sempre, al pari forse dell’iracondo McEnroe (in Borg McEnroe del 2017) ed è l’elemento in più capace di donare spessore e verità ad un’opera che più volte avrebbe potuto prendere la deriva del sensazionalismo urlato ed esibito, ma che invece riesce a mantenersi in equilibrio costante sui binari della (sana) commozione.