"Non sta a voi a decidere cosa deve succedere qui". Parola di iracheno, megafono di Paul Greengrass, che inquadra la Green Zone di Baghdad, all'indomani della seconda Guerra del Golfo nel 2003.
Scritto dal premio Oscar Brian Helgeland (L.A. Confidential e Mystic River, niente male…) e basato sul bestseller del giornalista del Washington Post Rajiv Chandrasekaran, Imperial Life in the Emerald City: Inside Iraq's Green Zone (colpevolmente non tradotto in Italia), Green Zone arriva nella filmografia del regista inglese dopo il dittico spionistico The Bourne Supremacy e The Bourne Ultimatum e l'11 settembre di United 93: tutti e tre ritornano qui sia nello stile documentaristico (macchina a mano, montaggio mozzafiato, effetti di realismo speciale) che nella poetica (dare definizione, altra dai massmedia “giornalistici”, al vulnus geopolitico di questi nostri anni) e pure nell'ideologia, con qualche significativo slittamento.
Il primo è il ruolo della CIA: dopo averla bastonata con Bourne, Greengrass osserva come sia "bello avere un personaggio dell'Agenzia che sia una brava persona", ma c'è di più. La Cia, tramite il comandante della postazione di Baghdad Martin Brown (Brendan Gleeson, possente), vuole capire perché le armi di distruzione - poi ribattezzate di "distrazione" - di massa non si trovino, mentre l'agente della DIA del Pentagono Clark Poundstone (Greg Kinnear, perfetto uomo d'apparato bushista) insabbia, distorce e svia, complici i Berretti Verdi (Jason Isaacs) e una stampa a corto di verifica: Lawrie Dayne (Amy Ryan) del Wall Street Journal, che beve tutto e mette in pagina. Poi ci sono gli iracheni: il generale Al Rawi (Ygal Naor, con lo sguardo che uccide) rivendica all'esercito un ruolo di stabilizzazione nel dopo Saddam, mentre Freddy (Khalid Abdalla), una gamba lasciata in Iran, la volontà di fare in prima persona per il proprio Paese.
Tutti contro tutti, americani contro americani, iracheni contro iracheni, americani contro iracheni: in mezzo, il capo Roy Miller, chiamato dall'alto a trovare le armi chimiche e richiamato da se stesso a cercare la verità. Un luogotenente con il volto e la fisicità di Matt Damon, alla terza collaborazione con Greengrass dopo i due Bourne (la quarta in cantiere: focus sulla crisi finanziaria) e sulla (buona) strada di una carriera senza eguali a Hollywood.
Da un sito all'altro a bordo dell'Humwee, i suoi occhi rivelano che la Green Zone, i 10 km² protetti del comando USA e UK, è l'isola che (non) c'è nell'inferno: iracheno, ma a denominazione d'origine controllata statunitense. E Greengrass fa di tutto per dare credito alla sua testimonianza: reduci come attori e consulenti militari, location in Spagna, Marocco e Inghilterra “più vere della vera Baghdad”, tagli sul movimento e raffiche notturne che altro non sono che un nuovo, adrenalinico e civile tallonamento neorealistico. Non ci sono i buoni e i cattivi, ma la gelatina esplosiva che manda in frantumi la verità, quella che un editing di travolgente umanità cerca di ricomporre: senza escludere un solo spettatore, senza venire meno alla scabrosa legittimità del diritto internazionale. Tutti giù per terra: l'Iraq agli iracheni, e non c'è Green Zone che tenga.