Da quando la politica - americana, ma non solo (è di qualche giorno fa il rapporto della FAO che denuncia gli eccessi a tavola dell'Europa per la soddisfazione dei quali una sola terra potrebbe non bastare) - ha inserito l'obesità tra i temi in agenda anche il cinema si è adeguato sfornando negli ultimi anni un'estetica controcorrente e un immaginario fatto di corpi adiposi, trippa e bilance scassate. Il punto di vista è stato di volta in volta documentarista e d'inchiesta (Supersize Me), frivolo e bonario (Hairspray - Grasso è bello), apocalittico e sociale (si pensi alla colonia di sopravvissuti di Wall.E), in ogni caso generalizzante. La diversità di Gordos, opera seconda dello spagnolo Daniel Sanchez-Arévalo (Azul oscuro casi negro) in cartellone alle Giornate degli Autori, è il tentativo di un approccio intimista, psicologico, incentrato sulla persona del ciccione. Attorno al quale il film propone una variegata casistica: c'é l'ultimo discendente di una generazione sovrappeso che ha paura di morire giovane come i suoi predecessori; la promessa sposa che attribuisce ai suoi chili in eccesso le reticenze sessuali del futuro marito, un fanatico religioso; l'omosessuale che non riesce ad accettare se stesso e continua a reinventarsi anche dal punto di vista fisico; la ninfomane repressa che sfoga nel cibo la sua penuria di esperienze. Tutti in cura da un terapista dell'obesità, che è il primo però a non riuscire ad accettare il corpo "gravido" della moglie. E alla fine il grasso di troppo è il minore dei loro problemi. Proprio per questo Gordos è un film né pro né contro, e in definitiva nemmeno "sull'obesità". La cinepresa di Sanchez-Arévalo - fluida, elegante, anche troppo spavalda per un semiesordiente - si posiziona al di qua e al di là del fenomeno, interessata alle nevrosi, alle paure, alle umane fragilità che determinano i maledetti chili in eccesso. Il cuore del discorso resta dunque la ricerca di una bussola esistenziale che rimetta a posto sbandamenti e sconquassi della torturata antropologia del benessere. Ma un fastidioso psicologismo fa di tutto per sommergere i momenti di sincerità e di sano divertimento che pure il film dispensa, mentre la sintomatologia - l'essere obesi - sembra più un espediente di forma per il regista spagnolo, che si diverte a saturare le immagini coi rotoli di carne di corpi deformi, silhouette grottesche di un antispettacolo servito a bella posta per mettere a disagio lo spettatore (e il suo appetito). La ripulsa è programmatica, alcune provocazioni suscitano più ilarità che scandalo e l'operazione marca da vicino quelle pregresse di John Cameron Mitchell (Shortbus) e Ulrich Seidl (Canicola). Ma a differenza di quest'ultime, mostra una maggiore nostalgia per l'umano. In tempi di cinismo imperante, il dato più disturbante del film rischia di essere questo.