Germania, gli anni dell'ascesa del nazionalsocialismo: John Halder (Viggo Mortensen) è un docente di letteratura, pacato e riflessivo, alle prese con problemi familiari: una moglie nevrotica, un suocero intrusivo, una madre non autosufficiente, spunto per un romanzo in cui avalla l'eutanasia. Il libro diventa un caso, soprattutto per le alte sfere del partito nazista, pronte a tradurlo in ottimo strumento di propaganda. Prima critico e comunque distante dal nascente hitlerismo, Halder si lascerà cooptare meccanicamente nelle fila nazionalsocialiste, fino a indossare l'uniforme delle SS. Nel frattempo, lascia la moglie per una sua studentessa, e finisce per abbandonare al proprio destino l'amico e psicanalista ebreo Maurice (Jason Isaacs)...
Opera seconda del viennese trapiantato in Brasile Vicente Amorim, Good segna il raddoppio di Viggo Mortensen al Festival di Roma: insieme al buon western hawksiano di Ed Harris, Appaloosa, in carnet aveva questo cattivo Good, condizione necessaria e sufficiente (sic!) per servirlo in Anteprima a pubblico e stampa.
Tratto dal testo drammaturgico di CP Taylor, il film è sterile e bolsa traduzione audiovisiva della "banalità del male" arendtiana, densa di stereotipi, vicoli ciechi di sceneggiatura e una diffusa sensazione di inutilità. Non basta la discreta prova del nazista per caso Mortensen, stralunato, compassato e "inconsapevole" ad hoc, per disseminare qualche elemento di interesse. Negli orecchi rimane la musica di Mahler (sovrautilizzata e mal arrangiata), sugli occhi le non disprezzabili prove, oltre a Mortensen, di Isaacs e del nazista Mark Strong, e in testa una certezza: val più una sola pagina de Le Benevole di Jonathan Littell che i 96 minuti di Good. Non basta il titolo per fare un buon film...