“[…]e vedo solo i tumuli delle sepolture. /Sulle antiche tombe si è arato per farne campi. / […] Il vento geme tristemente fra i bianchi salici, / e il loro lamento mi dà un dolore insopportabile”. così recita un'antica poesia cinese. Un'eco che sembra risuonare nella Cina millenaria di Li Ruijun (Summer Solstice, 2007 e Old Donkey, 2009), dove il vecchio Ma, alla fine dei suoi giorni, vorrebbe che la sua anima volasse in cielo sul dorso della leggendaria gru bianca. E invece, ironia della sorte, da quando il governo di Pechino ha vietato la tradizionale sepoltura e imposto la cremazione, lui che è stato falegname e pittore di bare, non solo si trova disoccupato, ma vive nel timore di scomparire in un filo di fumo. Qui dove lo scorrere lento delle immagini restituisce la percezione dell'esistenza di un mondo rurale, mentre il presente è in bilico, tra tradizione e modernità, tra il cambiamento che incombe e la necessità di mantenere la continuità fra le generazioni. In un cinema depositario della saggezza popolare d'antan, nutrito di corrispondenze simboliche sotterranee, in cui il respiro del tempo si traduce in musica empatica (sublime il folk rock di Xiao He) e i colori chiassosi e abbaglianti (quelli della fotografia magistrale di Yang Jin, regista di Er Dong, 2008) fanno da contrappunto visivo all'idea di morte. E questa si insinua silenziosa tra le inquadrature ad altezza ribassata (vicino alla terra o alle quattro spanne di un bambino), cifra stilistica di quest'opera tutta orizzontale. Perché è lungo la linea dell'orizzonte, nella frontalità delle inquadrature, che si dipana il conflitto fra padre e figli (loro che lo credono pazzo, perché dice di aver visto la gru volare, là dove è stato sepolto nascostamente l'amico Cao). E sulla stessa direttrice si stabilisce la continuità con le generazioni future, un fil rouge che collega nonno Ma ai suoi nipotini e alla terra stessa, nella dialettica tra spazio in/off, tra vita e morte che si compenetrano. Là in basso, sotto le zolle, dove i bambini giocano a trattenere il respiro; là in basso, dove il vecchio Ma riesce a congedarsi dal gioco stesso della vita con uno sberleffo verso i dettami del potere costituito. E finalmente potrà dire: Tell Them I've Gone With the White Crane. Lo stesso titolo del romanzo di Su Tong a cui il film è ispirato. Un autore caro ai registi della quinta generazione (Zhang Yimou in primis: "Mogli e concubine" è all'origine di Lanterne Rosse) a cui il giovane Li Ruijun - classe 1983 - si è accostato per scavare nella propria cultura, nei suoi valori artistici e filosofici traducendoli nella scelta di lunghi piani sequenza, nella composizione architettonica dell'inquadratura che abbina pieni e vuoti, nella restituzione di immagini di superficie che riconducono alle antiche raffigurazioni della pittura cinese. Ma è soprattutto un film che si regge su affinità elettive e “affettive” (gli attori sono i familiari del regista) che oltrepassano i limiti generazionali con la leggiadria del tocco di una piuma (candida come quella di una gru) e con quella carica emotiva propria di un cinema di poesia. E Li Ruijun vola alto.