Liberamente tratto dal racconto Dietro il corsetto (Choli ke Picche) contenuto nella raccolta Breast stories della scrittrice indiana Mahasweta Devi, è Gangor, diretto da Italo Spinelli e in Concorso al quinto Festival di Roma.
Coproduzione italo-indiana, il film segue il fotoreporter Upin (Adil Hussain), inviato nel Bengala occidentale a Purulia per indagare le violenze e lo sfruttamento delle donne tribali (in particolare dell'etnia Kheria Sabars): accompagnato dall'assistente Ujan, fotografa un gruppo di donne impegnato a trasportare mattoni, tra cui Gangor (Priyanka Bose) che sta allattando il figlio. Lo scatto, da cui Upil rimane profondamente turbato, viene pubblicato in prima pagina: è scandalo, che squassa la vita di Gangor. Ignaro, Upin è tornato dalla moglie a Calcutta, ma il pensiero della donna l'ossessiona e torna a Purulia: scoprirà di essere diventato lui stesso un ingranaggio di quel meccanismo di violenza che avrebbe voluto arrestare.
Ovviamente apprezzabile l'intento civile e umanista di Spinelli, Gangor tuttavia non riesce a fare cinema di queste buone intenzioni: se per lo stato dell'arte dello sfruttamento sulle donne in India, un documentario funzionerebbe decisamente meglio, il film perde ancor più sull'altro versante d'indagine, quello – perno del racconto della Devi – critico della relazione tra intellettuali urbani e povertà rurale.
Sospeso tra fascinazione sensuale e "folle" paternalismo, il personaggio di Upin è francamente stereotipato: reporter talentuoso ma incontrollabile, che della campagna ama gli amari ma non le donne e che vive con la moglie solo due mesi all'anno, perché il lavoro, anzi la sua missione informativa, non conosce tregua… Naturale, dunque, che non si colori della necessaria ambiguità, bensì stinga nel duetto con la bella Gangor tutte le problematiche dello sguardo sull'altro e dell'altro: anziché il terreno antropologico, il film trova il deserto drammaturgico, al posto dell'invenzione audiovisiva, l'appiattimento su didascalie e mere illustrazioni. Non va.