L'occasione per riabilitare definitivamente Good Kill di Andrew Niccol ce la offre suo malgrado Full Contact che, come l'altro, mette in scena la vita di un pilota di droni e gli annessi e connessi (a)morali. Se il film di Niccol scontava qualche concessione mainstream, quello dell'olandese David Verbeek (presentato prima a Toronto e ora a Roma) è invece insulsamente autoriale. Il protagonista, impersonato da Gregorie Colin (un attore mediocre con un volto interessante, da giovane De Niro), svolge l'infamante mestiere del pilota che non decolla mai da terra: in una roulotte da qualche parte nel deserto del Nevada, preme il pulstante del suo joystick per decidere sulla vita e la morte di ignari esseri umani dall'altra parte del mondo. Finché non becca dei bambini.

Nulla di nuovo, con l'ennesima litania anti-tecnologica - la famigerata macchina che vede di Paul Virilio - sui rischi dei processi di automazione e spersonalizzazione connessi alle nuove armi. Ovviamente rintuzzato da una confezione in stile fantascienza post-apocalittica (il deserto del Nevada fotografato come un pianeta alieno) e passaggi narrativi obbligati, con il nostro che passa le sue giornate in beata alienazione, tra consolle e locali notturni. Lì conosce una spogliarellista (Lizzie Brochere) che potrebbe forse riportarlo alla vita e che invece finisce per liquidarlo con l'epitaffio stesso del film: "Tu non esisti".

E quando sembra che tutto proceda per il verso giusto - leggi: scontato - ecco che Verbeek cambia le carte in tavola e gira un altro film in cui il nostro pilota si ritrova nudo su una spiaggia deciso, sembra, a ripercorrere le gesta di Robinson Crusoe, se non fosse per quei demoni che si materializzano di tanto in tanto e che hanno i volti di coloro che ha ucciso. Intuiamo che tutto questo passaggio a metà tra l'onirico e l'allegorico ci condurrà a una terza parte del film, il che puntualmente avviene quando ritroviamo il nostro Crusoe ed ex pilota a smistare le valigie smarrite in un aeroporto francese. Lì si invaghisce di una collega (uguale alla spogliarellista di cui sopra) e frequenta una palestra semi-clandestina in cui pratica una cosa simile alla kickboxing ma molto più cruenta, popolata dai soliti tizi arabi che aveva ucciso nella sua vita precedente.

In tutto questo saltellare da un film all'altro, neanche fosse lo zapping, afferriamo il messaggio di fondo: l'alienato protagonista sta sperimentando modi fantasiosi per riappropriarsi di un rapporto fisico - il full contact del titolo - con l'esistenza. Meglio ancora se di sofferenza, per dare un contenuto al senso di colpa morale inevitabilmente separato dall'atto.

Peccato che la tesi passi da una formulazione esteticamente stantia e narrativamente contorta. Per un film né giusto né sbagliato, ma solo confuso e irritante.