La storia spiegata dalla televisione. La verità (sempre parziale) sull'identità e sui sentimenti di un uomo svelati dalla struttura retorica di un'intervista. Domande e risposte, affondi e parate, finte e digressioni, colpi bassi e sperimentato controllo. Frost/Nixon è una acuminata lezione sulla politica americana degli anni Settanta e sui media. Un capolavoro di suspense della parola costruito come un match di boxe e una partita a scacchi in cui le regole sono dettate dalla tv, dall'ansia dell'audience, dalla volontà dei due protagonisti di un ritorno alla ribalta. Per David Frost, mediocre conduttore di talk show, l'intervista con l'ex- Presidente costretto alla dimissioni dopo lo scandalo Watergate, è il passaporto per la popolarità e il successo; per Richard Nixon è il tentativo di pareggiare i conti con la Storia e riaffermare il suo ruolo di statista di primo piano. Due reduci, due esseri umani in panne, due uomini senza apparente qualità. Il primo ha un discreto intuito per lo show business e il secondo, gratificato da un cachet di 600 mila dollari, è convinto che l'intervista sarà una buona occasione per sfoggiare la sua astuzia machiavellica e per riabilitarsi agli occhi degli americani. L'intervista – che ebbe luogo nel 1977, tre anni dopo l'uscita di scena di Nixon - fu uno dei programmi di punta di quella stagione con circa 45 milioni di spettatori. Nixon era abbastanza sicuro di avere la meglio su un frizzante mediano dell'intrattenimento come Frost. La messa in onda dello show ha dimostrato il contrario. Frost/Nixon, diretto con una messa in scena attenta e invisibile da Ron Howard e scritto da Peter Morgan (The Queen, L'ultimo re di Scozia), è l'adattamento di una pièce teatrale dello stesso Morgan interpretata dai medesimi attori, Frank Langella e Michael Sheen (il Tony Blair di The Queen). E' l'ultima puntata, per ora, della Nixoneide che ha sollecitato altri registi cinematografici e televisivi, attori drammatici e comici. La figura controversa, ambigua, e marcata di Richard Nixon, detestata più che amata, resta un interrogativo. Il film ha il pregio di scegliere il punto di vista della telecamera. Un dispositivo che registra le magistrali interpretazioni di due attori (Langella è sublime: non imita, incarna, si immerge in apnea nel personaggio) mentre giocano l'ultimo match buono della loro vita professionale. Un paragrafo della storia del Novecento viene chiarito da una macchina che indugia implacabile su un volto gonfio, stanco, inumidito dal sudore. Il volto di un uomo per il quale la televisione non è mai stata, nella sua lunga carriera politica, alleata (la mediocre performance catodica nel 1960 aveva ampiamente favorito il suo avversario John F. Kennedy). Quell'uomo non vuole capire o finge di non sapere che l'etica della politica non giustifica un agire che prescinde dalla morale. È convinto, come ammette alla fine del duello intellettuale, che gli atti e le decisioni di un Presidente non possano essere illegali. In questa conversazione tutta da vedere e da ascoltare (in cui non c'è un ruolo secondario che sia stato affidato con imprudenza) le due talking heads sono protagoniste di una spinosa seduta analitica, di un ruvido confessionale laico. L'immaginaria telefonata notturna tra i due contendenti, prima dell'ultimo round, è un esempio straordinario di quanto le parole possano essere immagini interiori.