E' da almeno quattro anni (da Alila in poi) che Amos Gitai ha deviato in modo deciso e netto il suo percorso di analisi del quotidiano e della memoria in terra promessa verso spazi di rappresentazione angusta, mettendo da parte la magniloquenza di altissimi momenti di cinema, dimenticati dai giurati dei festival e mai troppo elogiati dalla critica. Capiamoci meglio: lavorare sulla costruzione e la composizione dello spazio consente a Gitai di concentrarsi di più su aspetti come la sperimentazione prettamente visiva. In Free-zone, reale striscia di terra tra la Siria, la Giordania, l'Iraq e l'Arabia Saudita, dove si commercia senza dazi doganali e si compiono affari dal piccolo cabotaggio alle migliaia di dollari di guadagno, l'aver rinchiuso Natalie Portman e Hanna Laslo per tre quarti di film all'interno dell'abitacolo di un automobile e averle riprese nel loro viaggio verso la free zone senza mai cercare panoramiche o piani lunghi dai bordi della strada o da qualche chilometro di distanza, è la conferma di ciò che prima si affermava. A Gitai serve uno spazio estremamente chiuso per immergersi nel vissuto traballante delle protagoniste e per poter osservare, a sua volta, dall'abitacolo l'esterno, in una sorta di soggettiva trance. La frammentarietà e la problematicità dei luoghi che così fanno da sfondo, sfiorano prima e invadono poi, le due donne protagoniste (che sul finale diventano tre). Ma Gitai nel percorrere questa strada che potremmo, osando, definire intimista, si perde in esperimenti sull'immagine stessa (dissolvenze incrociate, arricchimento fisico di ristretti prosceni, ecc..) che portano, probabilmente, troppo lontani l'osservatore. Iniziando così a contaminare il personale con l'universale, che per Gitai significa visione progressista e pacifista del conflitto arabo-israeliano, l'asse della sperimentazione e del lavoro sull'evoluzione della dialettica tra le protagoniste, si sposta sul quel fuori campo che sembrava contorno, ma che evidentemente non può, in quel contesto politico, essere messo da parte. Ne risulta un film fortemente sbilanciato, che all'improvviso vuole di forza riappropriarsi della profondità quando tutto aveva dato da pensare che si stesse lavorando sulla superficie.