Fratelli in erba uguale figli della stessa confusione. Perché gli effetti del tetracannabinolo - "l'erba" che il film di Tim Blake Nelson dispensa a iosa e in vario modo: nella flora da serra, da giardino, nei fumosi dialoghi, nell'assopita regia - sono quelli che sono e, ad eccezione di una fugace esperienza atarassica, non portano a nulla di buono. Tanto per i protagonisti, due gemelli monozigoti che non potrebbero essere più diversi l'uno dall'altro - uno è stimato professore di filosofia, l'altro impenitente spacciatore - quanto per il film, che soffre dello stesso stordimento imputato ai suoi personaggi fattoni: nell'uno e nell'altro caso le buone intenzioni vanno irrimediabilmente in fumo. Peccato, perché lo spunto non era male al netto di ambizioni meno eccessive: invece Nelson - anche sceneggiatore - vuole trovare a tutti i costi la quadratura del cerchio imbastendo una commedia che sia cerebrale e familista, briosa e filosofica (si parla a briglia sciolta di Socrate, Aristotele e Heidegger), apollinea e dionisiaca, già pronta per metamorfosi tragiche e persino pulp.
La storia: quando Bill Kincaid riceve la notizia dell'assassinio del suo gemello Brady, morto in un affare di droga andato male, lascia la Brown University, dove insegna i classici del pensiero filosofico, per tornare nella nativa Little Dixie, Oklahoma, terra di bifolchi (a suo pre-giudizio) e di vicende di campagna. Una volta arrivato a casa però, Bill si troverà di fronte il gemello ancora vivo, e pericolosamente al centro di un intrigo orchestrato dal medesimo fratello...Script ritagliato sulla vena gigiona di Edward Norton che fa suoi tutti e due i gemelli riuscendo nell'impresa di screditare entrambi. Poco sincero lui (loro?), troppo pastoso il film, che soffre di logorrea - nonostante qualche battuta sia felice - e provoca nevralgie. Immaginate la parlantina di Woody Allen con la faccia da colletto bianco di Norton che sciorina dialoghi tratti dall'Apologia di Socrate. Oppure: Wayne Wang che gira un film con Danny Boyle su sceneggiatura di Tarantino.
I camei di Susan Sarandon (è la madre dei gemelli) e Richard Dreyfuss (nel ruolo di un trafficante ebreo) non aggiungono nulla, ma danno semmai l'impressione di essere stati inseriti di forza. L'intreccio si incarta in dialoghi lunghissimi, twist poco credibili, e finali multipli (ne abbiamo contato almeno tre). Scontate le invettive anti-religiose, non banale invece la riflessione sul pensiero alto, nell'accezione di sapere accademico, anaffettivo e poco disposto a sporcarsi le mani: meglio una poesia di Whitman (Leaves of Grass) - sembra dirci Nelson - che una sapienza epicurea. Ancora: meglio l'amore che l'autocontrollo. Si può essere d'accordo con lui, se pure lui converrà con noi: meglio un film d'evasione che una lezioncina di vita spacciata per cinema.