Chissà perché le donne indimenticate del cinema hanno tutte l'iniziale H nel cognome: Annie Hall, Adele H. e ora Frances Ha, l'eroina di Noah Baumbach destinata ad entrare nella migliore ritrattistica femminile su grande schermo.
27 anni, alta come una giraffa, goffa, complessa e complessata, dal cuore smisurato, Frances è ciò che sarebbe stata la Diane Keaton di Allen se avesse vissuto a Brooklyn ai giorni nostri. E insieme l'Adele H. odierna, se il suo entusiasmo non avesse retto gli urti di una vita ostinatamente ostile. D'altra parte Allen e Truffaut sono due modelli ben presenti nella testa di Baumbach che, messa parzialmente da parte la sua cinica idiosincrasia per geeky, hipsters e artistoidi dell'America vuota e sofisticata, ci regala uno dei più struggenti omaggi alle donne, a New York e alla Nouvelle Vague.
La qual cosa non sarebbe mai stata possibile senza la totale dedizione alla causa di Greta Gerwig (co-autrice della sceneggiatura), la cui stella da oggi splende luminosa nel firmamento alternativo hollywoodiano. Non è bella Greta ma ha una faccia naturalmente simpatica, con quegli occhi vagamente malinconici, i nei appena accennati - come se vi si fosse poggiata la punta di una matita - l'espressione serenamente ammaccata, di chi è nata per sopportare le botte. La sua Frances è destinata in effetti a prendere un cazzotto dopo l'altro. Senza dote, a Ny in cerca di fortuna, precaria in una compagnia di ballo grazie alla quale riesce a malapena a pagare l'affitto di un appartamento che condivide con l'amica del cuore, Sophie (l'ottima, magra e occhialuta Mickey Summer), i guai per questa eterna bambinona iniziano quando il fidanzato (Michael Esper) le chiede di andare a convivere. Ma Frances non è pronta a dividere la propria vita con qualcuno. O meglio, non è disposta a farlo con qualcuno che non sia Sophie. Il ragazzo la molla e a seguire la scarica anche Sophie, che coglie al volo l'occasione per trasferirsi nel quartiere che desidera da una vita, Tribeca, ritrovo di artisti e letterati (Sophie lavora presso una casa editrice, la Random House: tradotto, viene pagata per leggere libri).
Per Frances è l'inizio di una scoraggiante serie di sfortune, in cui si ritrova tra fasulli figli di papà che si credono artisti arrivati, principessine della ricca borghesia che la trattano con sufficienza, adolescenti alle prese con le prime sventure ormonali che la guardano come se fosse "vecchia", tagliata fuori dal corpo di ballo, costretta ai lavori più umili, a rimediare un letto nei dormitori scolastici e così via, sospinta in retromarcia là dove si squagliano i sogni.
Insomma, New York non è più quella romantica di Allen, ma non è nemmeno la Roma che frustra le aspirazioni dei nostri studenti. E' una città incantevole e forse bugiarda, una metropoli che ti risucchia e ti sputa via, dove è ancora possibile però nutrirsi di stimoli, conoscere qualcuno che ti voglia bene davvero, condividere un sorriso. Illuminata dal folgorante bianco e nero di Sam Levy e catturata dallo sguardo limpido, pulito e geometrico di Baumbach, la città è la vera co-protagonista del film. Da Lei si effonde questo umore di mezzo, l'understatement che ammorbidisce ogni passione, ogni gag, ogni sciagura. E trasfigura ogni durezza in qualcosa di molle, desolante ma in definitiva accettabile. Vincente poi la scelta di trattare l'amicizia di Frances e Sophie come fosse una storia d'amore ("Siamo come una vecchia coppia lesbica che non fa più sesso", si diranno l'un l'altra), con le fasi, i crucci, i litigi e le riconciliazioni che ogni storia di questo tipo si porta appresso. E poi c'è Greta. La sua vitalità non sembra contenibile da niente e nessuno. Mentre corre e saltella sulle notte di Modern Love di David Bowie, vorremmo essere lì con lei. Abbracciarla, coccolarla, dirle cose intelligenti. E, senza altro indugio, amarla.