"U-S-A! U-S-A! U-S-A!".

Markus Schultz, ex campione olimpico e campione del mondo di lotta libera, sta per entrare dentro una gabbia, per combattere. Questa è solo la fine della storia, però.

Un'altra storia americana, intorno allo sport, che Bennett Miller ha voluto raccontare dopo il bellissimo, e sottovalutato, L'arte di vincere (Moneyball). Stavolta parte dal clamoroso caso di cronaca nera che vide coinvolto, nel 1996, il magnate multimilionario John Du Pont. Una decina di anni prima, l'uomo decide di convincere i fratelli Dave e Marcus Schultz, entrambi campioni olimpici di lotta libera, a trasferirsi nella sua tenuta in Pennsylvania per incominciare ad allenarsi in vista di Seoul '88, offrendosi in qualità di "mentore" e mecenate e mettendo a disposizione un'enorme palestra già utilizzata dal suo neonato team sportivo. Dei due, solamente il minore, Marcus, accetta la proposta. A differenza di Dave, sposato e padre di due bimbi, Marcus non ha molto da abbandonare e la prospettiva di vivere nel lusso lo incoraggia definitivamente. E' l'incontro tra due facce della stessa medaglia: da una parte un eroe olimpico cresciuto comunque nell'ombra del fratello, asociale e a suo modo contenitore di una rabbia repressa, anche figlia della separazione dei genitori avvenuta quando aveva ancora due anni, un "dimenticato" che Channing Tatum interpreta con silenziosa veemenza e la solita, riconoscibile, presenza fisica; dall'altra l'uomo abituato, sin dalla tenera età, ad ottenere qualsiasi cosa (anche "l'amicizia" dei coetanei) per mezzo del denaro, succube di una madre che, ancora oggi, intimamente non lo ritiene capace di nulla: a vestirne i panni un irriconoscibile Steve Carell, sommerso da un trucco che lo invecchia e lo imbolsisce ma che, allo stesso tempo, lo aiuta a calarsi spaventosamente in un ruolo altamente insolito, e particolarmente rischioso.

In mezzo a queste due figure, emblemi di un'America che attraverso il potere crede di poter "accalappiare" anche i sentimenti e, al tempo stesso, che in nome del denaro non si è mai fatta problemi a "vendersi", c'è Dave (Mark Ruffalo, anche lui davvero bravo), l'uomo "normale", che sa stare al mondo, che attraverso la sua integrità di padre, marito, campione sportivo, non riesce a mentire a se stesso, a riconoscere inesistenti meriti altrui in cambio di chissà quale lusso. E, naturalmente, sarà quello che ne pagherà tragicamente le conseguenze.

Foxcatcher, "accalappiavolpe": è il nome che du Pont diede alla sua squadra, lo stesso del resto con cui da molto più tempo veniva riconosciuta la sua famiglia, una delle dinastie più prestigiose dell'intera storia americana. E', naturalmente, anche il titolo del film di Miller, appellativo che da solo vale più di mille parole e che sintetizza al meglio l'intera vicenda, raccontata dal regista di Truman Capote - A sangue freddo con il solito stile trattenuto, senza forzare mai un ritmo, una situazione. Quello che sembra interessargli davvero, in fin dei conti, è provare a scavare nel profondo di quel legame fraterno che la forza del soldo ha tentato prima di emulare, poi di distruggere. Ed enorme metafora diventa la stessa lotta libera: prima di ogni combattimento, quelle prese simulano un abbraccio. Che John du Pont tenta di imparare, ma con scarsi risultati. Ornitologo, amante della filatelia, dello sport, filantropo: come è stato possibile che un uomo così riuscì a premere il grilletto, tre volte, con quella glaciale semplicità? Allo stesso modo in cui un bambino decide che un suo pari non è più suo amico, semplicemente perché non ha voluto fare come diceva lui.

"U-S-A! U-S-A! U-S-A!".