Da tempo Marco Risi, assieme ai cosceneggiatori Andrea Purgatori e Jim Carrington, desiderava portare sullo schermo la vicenda di Giancarlo Siani, giornalista napoletano ucciso dalla camorra nel 1985 ad appena ventisei anni. Quella che rischiava di diventare un'ossessione ha preso corpo in Fortapàsc, film che usa il biopic per far conoscere al pubblico il dramma del giovane cronista, ma soprattutto denunciare la collusione tra camorra e potere politico. L'opera di Risi si colloca nella nobile scia del cinema italiano di impegno civile. E però, proprio ripensando alla nostra grande tradizione, si affacciano un paio di domande di ordine generale: che significa oggi realizzare un film di denuncia? quali i modi giusti per farlo? Questioni non peregrine, perché da quando Risi ha immaginato di ricostruire la parabola di Siani i termini di paragone sono profondamente cambiati. Da una parte, inutile negarlo, la televisione ha rubato al cinema il ruolo di coscienza civile; dall'altra è deflagrata sullo schermo la bomba Gomorra, che ha rivoluzionato per sempre l'immaginario relativo all'universo dei boss e dei malavitosi, come giustamente sottolineato da Martin Scorsese. Il rischio è, dunque, che Fortapàsc sia arrivato leggermente in ritardo. Ed è un peccato, perché molti sono i suoi pregi: regala allo spettatore una Napoli insolita, non fa di Siani un ritratto oleografico, usa gli attori con grande maestria. Anzi la scelta delle facce giuste per ogni ruolo è uno dei punti di forza, infatti Risi ha messo insieme un gruppo efficace a cominciare da Libero De Rienzo che tratteggia un Siani al contempo timido, incosciente, testardo, sensibile. Ma tutti i comprimari sono da ricordare: Ennio Fantastichini nei panni del corrotto sindaco di Castellammare, Massimiliano Gallo in quelli del boss Gionta che nella caratterizzazione strizza l'occhio al Gandolfini dei Soprano, Daniele Pecci finalmente libero dalla recitazione monocorde cui la televisione lo ha spesso inchiodato. Una nota speciale merita poi la sceneggiatura, soprattutto nella parte in cui descrive il mondo del giornalismo, sulla quale deve aver giocato un ruolo fondamentale la mano di Purgatori. La redazione periferica del Mattino dove Siani lavora è buia, odora di sigarette e "tiriamo a campare", quella principale di Napoli è luminosa e i giornalisti sembrano padroni del mondo.