Ogni sequel è un remake del precedente. La saga, un rito. E' Final Destination 5 ma potrebbe essere l'1, il 2, 3 o il 4, che problema c'è? Sono tutti uguali - pure con l'introduzione del 3D dal quarto - gli episodi della serie, intercambiali come i loro interpreti, di cui nessuno ricorda mai i nomi e le facce. Stesso plot, stessa miscela truculenta e sarcastica, solita vena vagamente jettatoria ma dal fine apotropaico. La fatal quiete, più che un agente narrativo, diventa in effetti detergente della paura e deterrente di se stessa: la si accomoda scherzandoci su, e più è raccapricciante e inverosimile il suo modo di colpire, più diventa anestetico l'effetto che fa.
Final Destination è in fondo sfrontato esorcismo contro la scheletrica signora, condotto secondo una logica elementare e cristallina: in una società tecno-razionalista come la nostra cosa c'è di più disturbante dell'irrazionale, ovvero di ciò che non può essere previsto o controllato? L'ultima frontiera da assimilare è la morte, e come si fa? Rendendola personaggio al pari degli altri, con un suo schema intelligibile, un piano, un programma narrativo. Scoprire come e perché agisce è il piacere e la missione. Dei personaggi? Macchè, del pubblico: chiamato, convocato, dagli sceneggiatori a interagire apertamente col testo (tanto che lo stesso può rivolgersi esplicitamente - come nel finale - allo spettatore senza perdere coerenza interna).
Vero e proprio caso di cinema interattivo e rituale, Final Destination (episodio fate voi) il suo sporco, idiota lavoro lo fa. Ci si diverte pure. Se l'intrattenimento per voi è un equazione senza cervello. E la sala un luna park dove è meglio regredire che pensare.