“I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere...”.

In esergo la citazione da Se questo è un uomo di Primo Levi, in chiusura la dedica ai nonni “assassinati” e ai milioni di vittime dello sterminio nazista: Final Account di Luke Holland (scomparso nel luglio scorso a 71 anni) è documentario lontanissimo dal capolavoro di Sergei Loznitsa, Austerlitz, ospitato quattro anni fa, sempre Fuori Concorso, alla Mostra di Venezia.

Due operazioni completamente diverse (per approccio linguistico, estetico, e via dicendo), ma in fin dei conti convergenti per quello che riguarda il discorso delle responsabilità, delle colpe, dell’inazione che, inevitabilmente, finisce per tramutarsi in complicità.

Se il lavoro di Loznitsa portava in superficie lo sguardo indifferente del presente sulle tragedie della Storia, inquadrando l’odierna quotidianità dei campi di concentramento che ospitano il via vai e il chiacchiericcio di “visitatori” quasi alla stregua di un parco divertimenti, quello di Luke Holland (frutto di un percorso iniziato nel 2008) vuole invece mettere spalle al muro l’ultima generazione di tedeschi ancora in vita che, in un modo o nell’altro, “parteciparono” – più o meno attivamente – al Terzo Reich hitleriano.

Immagini di repertorio, fotografie e documenti che la memoria non può far sbiadire, gli archi struggenti di Escape di Jóhann Jóhannsson a sottolineare i silenzi dei raccordi tra una testimonianza e l’altra: Holland incontra ex membri delle SS, combattenti della Wehrmacht, guardie dei campi di concentramento e testimoni civili, tedeschi e austriaci, ognuno chiamato a fare i conti con i propri ricordi, la maggior parte di loro consapevole dell’orrore perpetrato, anche se indirettamente, per la paura di opporsi o, più semplicemente, perché cresciuti sin da bambini con l’imposizione ideologica del nazionalsocialismo.

 

Dall’ascesa al potere hitleriana alla notte dei cristalli, fino allo sterminio di massa, Final Account ripercorre attraverso la voce dei tanti intervistati ultraottantenni la fase più tragica della nostra storia di esseri umani, e lo fa cercando di comprendere come sia stato possibile che persone normali abbiano contribuito a far sì che tutto questo accadesse.

Ricordi d’infanzia che si trasformano in immagini inquietanti, divise e svastiche che giustificavano il “mito” della Gioventù Hitleriana con il miraggio di entrare a far parte poi “dell’élite”, il lavoro di Holland ci mette di fronte alla più aberrante delle banalità: la velocità con cui le più basilari norme morali possano evaporare e quanto la negazione possa riempire il vuoto.

“Se ricevevo un ordine lo eseguivo, altrimenti su quel muro ci finivo io”, “Non aver avuto l’audacia di dire no, di opporsi, ci tramuta inevitabilmente in complici”: dinamiche che, ancora oggi, in alcune parti del mondo, ovunque, potrebbero ripetersi.

“Come ci rendiamo conto di quando stiamo partecipando a un crimine, per quanto sottilmente?”, si chiede il regista. “Come hanno fatto alcune di queste persone che ho intervistato a non sapere di essere implicate in questi terribili crimini finché le cose non sono andate troppo oltre? Spero che il film offra l'opportunità di riflettere su questo. E l'ottimista che è in me pensa che queste lezioni possono essere ancora utili”.

Perché, continuando con Primo Levi: “Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà”. Se questo è un uomo.