Peppe (Fortunato Cerlino) e Francesco (Michele Riondino) sono due agenti della sezione speciale della Squadra Mobile di Napoli, i Falchi.

Girano in moto per i vicoli della città, brandendo paletta e pistola, pronti a intervenire là dove l'occasione lo richiede. Scippi, taglieggiamenti, crimini di piccolo cabotaggio, le tipiche sortite con richiamo - quando va bene - in cronaca locale. Che per loro però vogliono dire tanto. Vogliono dire contatto continuo, fisico, con l'anima deviata della città, rischiare ogni volta di venirne risucchiarli, sprofondando in quella stessa palude che in teoria ci si danna di prosciugare. Chi può chiamarsi fuori? Lo stesso capo della polizia (Pippo Delbono), tirato in ballo da un pentito di camorra, finisce per essere travolto dagli scandali e si suicida. Peppe ne erediterà il mastino, Francesco la colpa...e per entrambi le cose si incasineranno definitivamente.

Presentato come una sorta di Gomorra dalla parte della polizia – vuoi perché ambientato a Napoli, vuoi per la presenza, stavolta "tra i buoni", di Fortunato Cerlino - Falchi è in realtà un noir metropolitano che poco ha da spartire con gli intenti e il registro neorealista della serie di Sollima.

Toni D'Angelo guarda piuttosto al cinema di Hong Kong anni ’90, ai John Woo e ai Jhonnie To, al punto da inglobare l'elemento asiatico nel racconto, spostando l'asse narrativo dalla camorra alla mafia cinese, da Le Vele ai centri massaggio e ai combattimenti clandestini tra cani. Una scelta, condivisa con gli altri due sceneggiatori (Giorgio Caruso e Marcello Olivieri), che gli consente di mettere fuori fuoco Napoli, restituendone un'immagine cinematografica non stereotipata.

Una Napoli meno vernacolare, pienamente investita dai fenomeni socio-economici della globalizzazione, alterata dal punto di vista umano e culturale, ineluttabilmente opaca, scivolosa, infida, ma anche bellissima come certi scorci notturni lasciano vedere.  Una città poco riconoscibile e perciò moderna, dove però sono ancora pulsioni ancestrali e calcoli primitivi a smuovere le acque. In questa terra di nessuno, dove la Legge non è quella riportata sui manuali di giurisprudenza ma nelle strade e nelle menti di uomini-animali, Peppe e Francesco si perdono, galleggiano, cercano il modo di mettersi tutto alle spalle, inseguendo l'eco pura del loro cuore, non sapendo se è canto di sirena o il treno giusto da prendere.

D'Angelo cuce addosso a queste due anime fragili, perse, un film lunare, ondivago, abitato dallo stesso male di vivere. Non tutto gira a dovere (il finale è un po' buttato via e anche l'empatia con i personaggi è più supposta che sentita), ma la confezione c'è (bella la fotografia di Rocco Marra e le musiche di papà Nino) e il tentativo di accostamento alla realtà non per mimesis, ma attraverso la sua ri-costruzione scenica allegorica - come da tradizione di Hong Kong, da cui D'Angelo riprende anche la mescolanza di temi e motivi: il crime con il melò - è da incoraggiare.

Come e più che nei due precedenti film di finzione - Una notte (2007) e L’innocenza di Clara (2011), rispettivamente una rivisitazione di Jarmusch e Chabrol - Falchi certifica l'estraneità del regista partenopeo a certi schemi e logiche del cinema italiano. E scusate se è poco.