Dopo i successi editoriali che lo hanno consacrato come entertainer a tutto tondo, Michael Moore da Flint, nel Michigan, ricompare sulla Croisette che tanto gli ha dato in passato. E ci riferiamo alla scommessa che Cannes ebbe nel proiettare la sciochezzuola mooriana intitolata Canadian Bacon, quando ancora il regista americano non aveva del tutto sterzato verso la dimensione documentaristica che pare essere il terreno nel quale riesce meglio ad esprimere sia la sua vocazione comica, sia quella da spietato e ficcante accusatore dei misfatti dell'era bushiana. Va detto, quello di Fahrenheit 9/11 è un Moore molto più serioso e defilato (appare pochissimo davanti al "suo" obiettivo), ma anche molto più coinvolto in quella che oramai non è più l'analisi di un tema specifico come la vendita e distribuzione delle armi in Bowling for Columbine o la crisi GM in Roger and Me, ma una relazione completa e dettagliata del tema con la "T" maiuscola. Moore adotta, infatti, un piglio deciso e baldanzoso per almeno un'ora di pellicola, quando ancora si prova a ricostruire l'immenso e certificato intreccio fra la dinastia Bush e la Bin Laden family, per mettere in scena il grande inganno: il mondo è in guerra perché le responsabilità vanno oltre, ed è impressionante solo pensare che questa cosa sia avvenuta, ai terroristi di Al Queeda. L'assunto è così di per sé travolgente da lasciare senza fiato: George W. Bush sapeva quello che poteva succedere e non ha fatto nulla, se non nascondendosi dietro quintali di retorica da comizio. Da qui in avanti Fahrenheit 9/11 diventa una sorta di reportage inedito che si focalizza sul significato intrinseco dell'immagine e sulla capacità evocativa e pedagogica della parola: da nuove torture ai prigionieri iracheni questa volta all'aria aperta e non in prigione, allo strazio dei feriti e dei mutilati che ogni guerra porta da una parte e dall'altra del conflitto, fino ad arrivare alle dichiarazioni dei soldati americani che non ne vogliono più sapere di continuare questo nuovo Vietnam. E' un Moore quindi meno invadente del solito, quanto più efficace e devastante. Complimenti a lui, soprattutto per il coraggio e per la voglia di non piegare il capo al qualsivoglia diktat che necessita sempre di agnelli sacrificali per i propri business di guerra.