Più ancora che eccessi e stravizi, del Bukowski di Factotum a colpire è la grazia. Un tocco di spleen e poesia, con cui il regista norvegese di Kitchen Stories ammanta l'intero film, evitando le facili caratterizzazioni in cui pure erano caduti Marco Ferreri (Storie di ordinaria follia) e Barbet Schroeder (Barfly). Complice della riuscita operazione è un bravissimo Matt Dillon. Sempre più coraggioso nelle sue scelte professionali, per misurarsi col personaggio di Bukowski adotta il registro più inaspettato: smussa gli angoli, abbassa i toni, lavora per sottrazione, limitando al minimo la recitazione. A dispetto delle tinte forti che pure offrirebbero gli eccessi del personaggio, è nell'umiltà di questa scelta che trova la chiave vincente. Sbronze, scommesse, lavoretti saltuari e vita raminga: la parabola del suo Henry Chinaski è la stessa del Bukowski che conosciamo da Factotum e dagli altri suoi libri. Distante anni luce dall'icona, il ritratto di Hamer e Dillon punta però sul minimalismo per restituire anima e dignità all'uomo, liberandolo dal personaggio. Silenzi, movenze trascinate, sguardi bassi e persi nel vuoto di Dillon parlano di un disagio e un'incomunicabilità quasi universale. Incompreso fra gli incompresi, Chinaski si muove nella galassia di derelitti che sopravvive all'ombra dell'America scintillante: quella degli homeless, dei lavoratori saltuari, degli operai che affidano i loro sogni al miraggio delle scommesse. Il tutto in quasi rigoroso silenzio, su note malinconiche e coi ritmi rallentati che il regista mutua da quelli dello stesso Bukowski e una fotografia in grado di esasperare l'alienazione dei protagonisti. Monadi che si incontrano e sfiorano in un un microcosmo marginale eppure verissimo e palpitante: a modo loro si amano, come Chinaski e lo straordinario personaggio interpretato da Lily Taylor, ma sono destinati a soccombere. Le urgenze sono altre. E per Bukowski, verrebbe da dire, quasi più alte.