La "stravaganza" del titolo inglese (The Wackness) è diventata la cosa sbagliata italiana. Stravaganze (queste sì) del marketing che cerca pure d'insinuare nel pubblico nostrano recondite assonanze con la nera gioventù di Spike Lee, quella di Harlem e del contropotere (il Fight the Power dei Public Enemy), dei Malcolm X e del Fa' la cosa giusta . Ben diversa da quella raccontata dal cadetto Jonathan Levine. Siamo sempre a New York, ma il vento è quello dei '90. Folate di restaurazione: il suicidio di Cobain e la morte del grunge, la nuova dottrina urbana, la tolleranza zero di Rudy Giuliani, e la rabbia di rigetto dell'hip hop di Notorius B.I.G. A emblema di una generazione senza miti né rivoluzioni il film elegge Luke Shapiro (catatonico, al limite della smorfia, Josh Peck), fresco di diploma, spacciatore di hashish, sentimentalmente impreparato, psicologicamente inetto. Guru del nulla e pioniere di anguste frontiere, fra tutte il divano di uno psicanalista (Ben Kingsley, il migliore nel cast) più molle e sciagurato di lui. Doppio racconto di formazione a propulsione ibrida (sulla commistione dei generi però sembra prevalere l'indecisione su quale registro adottare) e fotografia stinta e senza verve di una generazione che è stata senza gloria né appeal. La sua indolenza pronta a tracimare, ahinoi, dal ritratto alla sala. E a mettere d'accordo le nostalgie di Reagan con il post-punk di Seattle: Nevermind, cantava Cobain. Appunto.