Oltre a essere moltissimo infedele, l'Exodus di Ridley Scott è anche pochissimo ispirato. La novità è che le due cose sono strettamente correlate.

A differenza del profeta attempato, umile e balbuziente dell'Antico Testamento, il Mosè interpretato da Christian Bale è un generale valoroso in battaglia, erculeo nel fisico e fiero nel temperamento, affilato di lingua e di spada. Più che al Pentateuco, Scott e la sua squadra di collaboratori guardano al superomismo coi sandali de Il gladiatore. Da cui mutuano anche il sottotesto familiare, con un padre (là l'imperatore, qua il faraone) che predilige più il figlio putativo che l'erede di sangue, alimentando invidie e rancori. Un tema assente nel Libro, ma molto sentito da Scott (che dedica il film al defunto fratello Tony), che non viene però adeguatamente sviluppato, anche perché Joel Edgerton non è Joaquin Phoenix, e il suo Ramses II non ha la maligna ambiguità di Commodo.

Sul fronte più strettamente messianico, il film risente invece della diffidenza del regista nei confronti della religione, già emersa ai tempi de Le Crociate: nonostante le fattezze da bambino, il Signore del popolo ebraico è soprattutto un padrone antipatico e bellicoso. Così le pagine più belle e ispirate dell'Esodo, quelle che riguardano l'elezione di Mosè, uomo umile e senza troppe qualità, a interlocutore di Dio, vengono dimenticate.

Il fatto è che Scott non crede mai in quel che racconta: lo dimostra la maniera in cui rilegge le dieci piaghe d'Egitto secondo criteri più “scientifici”, finendo così per soffocare quello stupore del trascendente che persino i vecchi calligrafici kolossal biblici conoscevano.