Probabile che il più incredulo, durante la ridda schizofrenica della cerimonia di premiazione all'ultimo festival di Cannes, sia stato proprio Tony Gatlif. Il premio per la miglior regia al film Exils stabilisce un repentino e tardivo riconoscimento, oltre a suonare come un avvilente buffetto terzomondista, a un regista oramai giunto alla soglia del trentennale di carriera (Gatlif ha iniziato il suo percorso da metteur en scene nel 1975 con La tête en ruines). Difficile quindi non evidenziare che Exils è la summa e il concentrato delle peripezie artistiche e professionali di un signore che fa del movimento frenetico e dissennato della macchina da presa una cifra stilistica peculiare. Stabilendo poi una matrice filosofica quasi invariabile nel tempo, quella di una sorta di fuoco sacro che anima i protagonisti, Gatlif su di essa costruisce ogni più curiosa variante narrativa. In questo caso tocca a Zano e Naima compiere un viaggio attraverso la Francia, la Spagna e il Marocco, per tornare sulle tracce dei loro avi algerini. Un percorso a ritroso che evita la dimensione politica e si concentra su quella geografica e, infine, spirituale. Un sovrapporsi e incrociarsi di corpi e di anime che sfocia in un'osmosi recitativa, musicale e linguistica, che dovrebbe portarci su un terreno di sensuale, autentico e sofferto meticciato di razze e culture. Peccato però che in tutto il cinema di Gatlif, e più che mai in Exils, la volontaria trascuratezza dei dialoghi, le sfasate e balbettanti dimensioni emotive dei due affascinanti protagonisti (Romain Duris e quella Lubna Azabal già vista in Loin di Téchiné), allontanino tutte le sacrosante velleità autoriali racchiuse nello script dalla loro realizzazione effettiva. E poi pensare che una soggettiva tremolante e stordente di una zanzara possa essere una divertente e intelligente variante tecnica, fa perlomeno sorgere un sottile velo di imbarazzo e qualche dubbio sulle reali capacità e intenzioni del regista franco-algerino.